Tecnologie e buoi dei paesi tuoi

Di Rodolfo Casadei
14 Maggio 2021
Rodolfo Casadei
Quantum, 5G, data cloud, microchip. Quanto c’è di credibile nell’intento dichiarato dall’Europa di riprendersi la «sovranità» sulle infrastrutture del futuro? Molto poco. Ma forse può bastare per strappare un accordo sulle tasse a Google, Amazon & co.
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Gli Stati Uniti stanno organizzando coalizioni internazionali a geometria variabile per contrastare il piano della Cina di diventare entro il 2050 la potenza egemonica mondiale attraverso la superiorità tecnologica piuttosto che attraverso quella militare, ma con l’Unione Europea hanno qualche problema. Non soltanto perché la Cina è diventata dallo scorso anno il suo primo partner commerciale, con un interscambio pari a 586 miliardi di euro, e gli europei si sono affrettati a firmare con Pechino un accordo globale sugli investimenti (che deve essere ancora ratificato dal Parlamento europeo) proprio nei giorni dell’interregno fra le amministrazioni Trump e Biden. Ma perché da molto tempo, e in particolare da quando Ursula von der Leyen è diventata presidente della Commissione europea, l’Unione si è data l’obiettivo di una “sovranità tecnologica”, condizione indispensabile per una “autonomia strategica” europea.

Personalità americane ed europee cercano di dissuadere i vertici dell’Unione e dei principali paesi membri dal percorrere una strada che inevitabilmente divaricherebbe la storica alleanza post-bellica che ha il suo caposaldo militare nella Nato e quello politico-economico nel G7. E tuttavia i deficit di protezioni personali prima e di scorte vaccinali poi sperimentati dai paesi Ue nel contesto della pandemia da Covid hanno rilanciato alla grande il concetto di sovranità tecnologica europea, facendone addirittura una priorità.

Già nel novembre 2019, nel suo discorso davanti al Parlamento europeo che doveva ratificare la nuova Commissione, Ursula von der Leyen aveva detto:

«Dobbiamo avere la padronanza e la proprietà delle tecnologie chiave in Europa. Queste includono il calcolo quantistico, l’intelligenza artificiale, la blockchain e le tecnologie dei chip».

E Thierry Breton, che stava per essere approvato come commissario per il Mercato interno e i servizi, e che è stato manager di successo a Thomson e a France Télécom, rincarava la dose:

«L’Europa non può realizzare la sua transizione digitale e verde senza costruire una sovranità tecnologica. Dobbiamo lavorare insieme a livello europeo in aree di importanza strategica quali la difesa, lo spazio e le tecnologie chiave come il 5G e il quantum». 

Qualche mese dopo era il turno del capo di governo del più importante paese europeo di ribadire il concetto: «È molto importante che l’Europa usufruisca di sovranità tecnologica», ha detto Angela Merkel collegata da remoto a una seduta del Parlamento europeo nel luglio 2020, «particolarmente in aree cruciali come l’intelligenza artificiale e i computer quantistici, e anche assicurando un’infrastruttura per la raccolta dei dati sicura e affidabile».

Gli interventi in cantiere

A parte le chiacchiere, che cosa ha fatto l’Unione Europea per dare corpo all’agognata sovranità tecnologica? L’anno scorso ha lanciato Gaia-X, progetto per la creazione di un’infrastruttura comune europea per l’archiviazione dei dati, destinata nelle intenzioni a fare concorrenza ai grandi provider di servizi cloud americani come Amazon, Microsoft e Google. Di fatto si tratta di un’iniziativa franco-tedesca, ma l’amministratore delegato è italiano: Francesco Bonfiglio di Engineering D.HUB, piattaforma di servizi digitali italiana. Gaia-X, che ha riunito finora 180 soggetti imprenditoriali, si presenta come «un sistema federato e sicuro che soddisfa i più alti standard di sovranità digitale nel mentre che promuove l’innovazione (…) basato sui valori europei». Gaia-X è considerato un Ipcei, cioè un “importante progetto di interesse comune europeo”, per il quale non valgono le norme sugli aiuti di Stato: i governi possono liberamente sostenere le imprese coinvolte.

Un altro progetto posto sotto l’egida della sovranità tecnologica europea e perciò dichiarato Ipcei è l’Eba, European battery alliance, che ha l’obiettivo di ricreare in territorio europeo l’intera catena del valore della produzione di batterie al litio per auto elettriche: se l’Europa non padroneggerà la filiera tecnologica delle batterie al litio, non ci sarà nessuna industria europea dell’auto elettrica, e questa sarebbe una vera tragedia soprattutto per l’industria automobilistica tedesca. L’Eba esiste dal 2017, ma le cose si sono fatte serie solo l’anno scorso, quando la Bei (Banca europea degli investimenti) ha messo a disposizione delle imprese 1 miliardo di euro, una cifra superiore a quanto era stato prestato al settore in tutto il decennio precedente. 

Nel settembre scorso, come parte del Piano d’azione dell’Unione europea per le materie prime di importanza critica, è stata creata l’Alleanza europea per le materie prime, che mira a creare autonomia strategica per le catene del valore delle terre rare e dei magneti in Europa, indispensabili a produrre batterie al litio e altre attrezzature per lo sfruttamento delle energie rinnovabili. 

Infine, nel dicembre scorso 13 paesi hanno sottoscritto, sotto la regia del commissario Breton, un impegno a unire le forze per investire di più nelle tecnologie dei processori e dei microprocessori: l’obiettivo è portare dal 10 al 20 per cento entro la fine del decennio la quota del mercato mondiale coperta da processori e semiconduttori di produzione europea. Fra i 13 paesi compaiono Germania, Francia e Italia. 

Il rischio dello squilibrio interno

Queste iniziative e la filosofia che le sottende sono oggetto di reazioni che vanno dallo scetticismo all’aperta ostilità, dalle accuse di protezionismo ai richiami all’esigenza di non compromettere la solidarietà occidentale. Commentando le critiche di Tyson Barker, direttore dell’Aspen Institute tedesco, alle pretese di sovranità tecnologica europea Alessandro Aresu ha scritto su Limes:

«Barker (…) non vede l’ora di deridere la combriccola di imprese europee impegnate nel progetto Gaia-X, che a partire dall’asse franco-tedesco vuole costruire un’infrastruttura dati potente e competitiva, sicura e affidabile per l’Europa. Nelle affermazioni di principio, si tratta di una possibile dichiarazione di indipendenza sui dati. Nella realtà, tutti sanno che il cloud Amazon rispetto a Gaia-X è come Darth Vader rispetto a qualche tirocinante della Morte Nera e che un’esclusione dalle infrastrutture europee dei grandi attori statunitensi è una chimera».

Secondo alcuni una politica di sovranità tecnologica europea rischia di privare l’Europa delle tecnologie più avanzate e di beneficiare solo i paesi più grandi, allargando la forbice fra le aree più ricche e quelle più povere dell’Unione. Nell’abstract del rapporto Europe’s Quest for Technology Sovereignty: Opportunities and Pitfalls dell’Ecipe, Centro europeo per l’economia politica internazionale di Bruxelles, si legge:

«Per alcuni il dibattito intorno alla sovranità tecnologica europea riguarda principalmente la definizione di politiche prescrittive che paradossalmente rischiano di ridurre l’accesso degli europei alla tecnologie innovative e ai prodotti e servizi che hanno aiutato l’Europa in occasione della crisi (del Covid, ndr). Le politiche prese in considerazione comprendono nuovi sussidi a imprese selezionate su base politica, o nuove regole e obblighi per alcuni modelli di business online (…). L’Unione Europea non può essere considerata un blocco monolitico che prospera in base a un solo schema di politiche prescrittive in materia di tecnologia. Già prima della pandemia iniziative per una sovranità tecnologica europea erano portate avanti dalla Francia e dalla Germania, alimentate da preoccupazioni relative alla forza industriale delle loro imprese in un’epoca di crescente competizione economica e geopolitica. Politiche industriali e tecnologiche favorite dai due più grandi paesi dell’Unione avranno uno sproporzionato impatto negativo sulle più piccole economie aperte d’Europa, le cui imprese e i cui cittadini potrebbero essere privati di tecnologie all’avanguardia, di nuove opportunità economiche e di partenariati sui mercati globali, minando lo sviluppo e la competitività internazionale di queste economie».

L’offerta a Joe Biden

A motivo di critiche di questo tipo, e ritenendo che la presidenza Biden offra opportunità che parevano non esistere con l’amministrazione Trump, il 2 dicembre scorso la Commissione europea e l’alto rappresentante per gli Affari esteri dell’Unione hanno emesso una comunicazione congiunta al Parlamento europeo e al Consiglio europeo dal titolo “Una nuova agenda Ue-Usa per il cambiamento globale”, dove l’espressione “sovranità tecnologica” non appariva nemmeno una volta. In compenso più volte il ramo d’ulivo viene offerto sulle questioni più scottanti:

«Stiamo affrontando sfide comuni nella gestione della transizione digitale delle nostre economie e società. Queste comprendono infrastrutture di importanza critica come il 5G, il 6G e gli strumenti per la sicurezza informatica, che sono essenziali per la nostra sicurezza, sovranità e prosperità – ma anche dati, tecnologie e il ruolo delle piattaforme online. In questo spirito, l’Unione Europea e gli Stati Uniti devono unire le forze come tecno-alleati per dare forma alle tecnologie, al loro uso e al loro contesto normativo. Sotto la nostra azione combinata, uno spazio tecnologico transatlantico dovrebbe formare la spina dorsale di una più ampia coalizione di democrazie affini con una visione condivisa della governance tecnologica e un impegno condiviso a difenderla. Per ottenere questo, l’Unione Europea deve continuare a perseguire i suoi obiettivi e le sue ambizioni tecnologiche che sono parte della decade digitale europea. L’Unione proporrà agli Stati Uniti di fare leva sulla leadership tecnologica dell’Europa per fare pressioni al fine di ottenere infrastrutture sicure per il 5G in tutto il mondo e aprire un dialogo sul 6G. Ciò dovrebbe essere parte di una più ampia cooperazione riguardante la sicurezza della catena di fornitura digitale, basata su una valutazione obiettiva dei rischi». 

Qual è il senso di questa “offerta”? Il 5G è l’unica area in cui l’Europa attualmente è più avanti degli Stati Uniti, perciò l’Unione offre i suoi buoni uffici affinché la minaccia di un controllo cinese su tale tecnologia non si materializzi (ma senza paranoie: “valutazione obiettiva dei rischi” vuol dire che non è necessario escludere completamente la cinese Huawei). In cambio, Bruxelles chiede «un accordo transatlantico sull’intelligenza artificiale», la creazione di un Consiglio transatlantico per la tecnologia e il commercio (Eu-Us Trade and Technology Council) e soprattutto «un’equa tassazione dell’economia digitale», per la quale «Europa e Stati Uniti dovrebbero fortemente impegnarsi per una tempestiva conclusione delle discussioni per una soluzione globale nel contesto dell’Ocse e del G20». 

Il pomo della discordia

La tassazione dei profitti dei Gafa (Google, Amazon, Facebook, Apple), che sfuggono alle maglie del fisco dei paesi europei grazie alla compiacenza dei paradisi fiscali (alcuni dei quali sono anch’essi europei: in particolare Irlanda, Olanda e Lussemburgo), è il grande pomo della discordia fra Europa e America. Tanto che, stanchi di aspettare l’accordo in sede Ocse, paesi come Francia, Italia, Spagna e Regno Unito hanno approvato leggi per tassare i profitti che stimano siano stati realizzati sul loro territorio dalle grandi multinazionali informatiche americane. 

La risposta di Washington alla dichiarazione di intenzioni di Bruxelles può essere riassunta nel progetto di Joe Biden di tassare al 21 per cento i profitti di tutte le grandi multinazionali, non solo dei Gafa, a vantaggio del fisco dei paesi dove i profitti vengono realmente realizzati. Una reazione dell’Unione a questo progetto – che dovrà passare per le forche caudine del Congresso americano – non è attualmente agli atti, anche se in Italia il premier Mario Draghi si è dichiarato sostenitore della proposta Biden. Pesa il fatto che all’interno dell’Unione Europea le aliquote della tassazione ai profitti delle grandi imprese variano moltissimo da paese a paese: si va dal 9 per cento dell’Ungheria al 33 per cento della Francia, passando per il 12,5 per cento dell’Irlanda. Per alcuni 21 è troppo, per altri troppo poco. Come succede quasi sempre in Europa.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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