
Telecom, gli inutili diversivi del premier
La bomba Telecom è esplosa sulla testa del centrosinistra e ha costretto Romano Prodi a pronunciare parole che mai sarebbero state prevedibili, solo all’inizio di settembre. Quel «se vado a casa io non sarò il solo» che ha rivolto minacciosamente alla sua coalizione dalla festa dell’Italia dei valori, è una di quelle uscite che ai tempi della Prima Repubblica avrebbe assunto un unico significato: ho capito che pensate già di mandarmi a casa, ma sappiate che posso portarne parecchi di voi a fondo. Del resto, Prodi era rabbrividito, tornando dagli Stati Uniti, leggendo i commenti che giornali come la Stampa sparavano in prima pagina, in cui si elencavano spietatamente tutti gli errori di Prodi sul dossier telefonico e le marce indietro che i suoi stessi alleati gli avevano imposto in una settimana, per concludere che in ogni caso la crisi non ci sarebbe stata per il solo ma solido argomento che nessuno dei suoi alleati attualmente è pronto a sfruttarla.
È a questa malaparata che Prodi ha reagito con un piano in tre mosse. La prima consiste nel tentare di far dimenticare il più possibile l’immondo pasticcio dell’intromissione realizzata da Palazzo Chigi nella vita di un grande gruppo quotato. La seconda, nel negare radicalmente che il premier covi intenti ripubblicizzatori: a maggior ragione dopo che l’Unione Europea ha riaperto i termini della fusione Autostrade-Abertis che Antonio Di Pietro voleva negare ai Benetton, questi ultimi possono salire in Olimpia – insieme magari ad altri gruppi “amici” – e risolvere il problema finanziario alla catena di controllo che risale fino a Marco Tronchetti Provera. La terza mossa è quella di cavalcare con toni roventi lo scandalo delle intercettazioni Telecom, affermando di aver sgominato la più grave minaccia d’inquinamento mai addensatasi sulla vita della Repubblica, e facendone distruggere all’istante per decreto governativo tutti i file. Questo terzo capitolo porterà con ogni probabilità ad affondare il coltello sulla testa del capo del Sismi, visto che la procura milanese punta al rinvio a giudizio dei vertici del servizio per il caso Abu Omar. Come si dice a Roma: buttiamola in caciara.
Ma domande pesanti restano. L’indagine sulle intercettazioni Telecom andava avanti da anni: perché Prodi riceveva a Palazzo Chigi Tronchetti, se era una minaccia per la Repubblica? Come fa Prodi a dire che non sapeva nulla di ciò che Telecom si preparava a fare, se Daniele De Giovanni da Palazzo Chigi telefonò ai vertici Telecom prima del Cda dell’11 settembre, per comunicare che il premier era scontento di ciò che sarebbe stato deliberato? Il piano Rovati gli era sconosciuto, quando i vertici stessi di importanti fondazioni bancarie come Giuseppe Guzzetti nei giorni successivi hano dichiarato che erano pronti a implementarlo, in cambio di garanzie sul ritorno dell’investimento nella rete fissa? Perché e a che titolo Palazzo Chigi aveva dato il via libera all’ipotesi, studiata dal banchiere Claudio Costamagna, di una Sky di Murdoch incorporata in Telecom? Di domande così se ne possono formulare una ventina. E sarebbe bene che in Parlamento Prodi rispondesse, invece di difendersi dietro lo scudo dello scandalo intercettazioni: gravissimo, ma che con tutto ciò – e con la pessima prova data dal premier – non c’entra proprio nulla.La bomba Telecom è esplosa sulla testa del centrosinistra e ha costretto Romano Prodi a pronunciare parole che mai sarebbero state prevedibili, solo all’inizio di settembre. Quel «se vado a casa io non sarò il solo» che ha rivolto minacciosamente alla sua coalizione dalla festa dell’Italia dei valori, è una di quelle uscite che ai tempi della Prima Repubblica avrebbe assunto un unico significato: ho capito che pensate già di mandarmi a casa, ma sappiate che posso portarne parecchi di voi a fondo. Del resto, Prodi era rabbrividito, tornando dagli Stati Uniti, leggendo i commenti che giornali come la Stampa sparavano in prima pagina, in cui si elencavano spietatamente tutti gli errori di Prodi sul dossier telefonico e le marce indietro che i suoi stessi alleati gli avevano imposto in una settimana, per concludere che in ogni caso la crisi non ci sarebbe stata per il solo ma solido argomento che nessuno dei suoi alleati attualmente è pronto a sfruttarla.
È a questa malaparata che Prodi ha reagito con un piano in tre mosse. La prima consiste nel tentare di far dimenticare il più possibile l’immondo pasticcio dell’intromissione realizzata da Palazzo Chigi nella vita di un grande gruppo quotato. La seconda, nel negare radicalmente che il premier covi intenti ripubblicizzatori: a maggior ragione dopo che l’Unione Europea ha riaperto i termini della fusione Autostrade-Abertis che Antonio Di Pietro voleva negare ai Benetton, questi ultimi possono salire in Olimpia – insieme magari ad altri gruppi “amici” – e risolvere il problema finanziario alla catena di controllo che risale fino a Marco Tronchetti Provera. La terza mossa è quella di cavalcare con toni roventi lo scandalo delle intercettazioni Telecom, affermando di aver sgominato la più grave minaccia d’inquinamento mai addensatasi sulla vita della Repubblica, e facendone distruggere all’istante per decreto governativo tutti i file. Questo terzo capitolo porterà con ogni probabilità ad affondare il coltello sulla testa del capo del Sismi, visto che la procura milanese punta al rinvio a giudizio dei vertici del servizio per il caso Abu Omar. Come si dice a Roma: buttiamola in caciara.
Ma domande pesanti restano. L’indagine sulle intercettazioni Telecom andava avanti da anni: perché Prodi riceveva a Palazzo Chigi Tronchetti, se era una minaccia per la Repubblica? Come fa Prodi a dire che non sapeva nulla di ciò che Telecom si preparava a fare, se Daniele De Giovanni da Palazzo Chigi telefonò ai vertici Telecom prima del Cda dell’11 settembre, per comunicare che il premier era scontento di ciò che sarebbe stato deliberato? Il piano Rovati gli era sconosciuto, quando i vertici stessi di importanti fondazioni bancarie come Giuseppe Guzzetti nei giorni successivi hano dichiarato che erano pronti a implementarlo, in cambio di garanzie sul ritorno dell’investimento nella rete fissa? Perché e a che titolo Palazzo Chigi aveva dato il via libera all’ipotesi, studiata dal banchiere Claudio Costamagna, di una Sky di Murdoch incorporata in Telecom? Di domande così se ne possono formulare una ventina. E sarebbe bene che in Parlamento Prodi rispondesse, invece di difendersi dietro lo scudo dello scandalo intercettazioni: gravissimo, ma che con tutto ciò – e con la pessima prova data dal premier – non c’entra proprio nulla.
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