Teresa torna sotto le bombe. Xhevart muore nel fango

Di Gian Micalessin
28 Aprile 1999
Storie di guerra impresse nel fango del fronte tra Uck e serbi e scene da una tranquilla giornata a Belgrado nell’intervallo tra una bomba e l’altra. Vittime sui due fronti di una stessa tragedia

Chi si illude che questa guerra sia una passeggiata può venire a passeggiare sulle montagne in Albania. Qui i verdolini video-games delle bombe intelligenti sfumano veloci nell’ocra del fango. Un fango fisico mi sprofonda nei piedi mentre risalgo il passo del monte Padesh. Lassù si combatte. Il fango di desolazione di questa terra albanese dove la guerra del Kosovo si aggiunge a quella delle bande di gangster locali. Il fango in cui sprofondano i profughi per essere poi derubati dai razziatori locali. Il fango dell’informazione e della disinformazione in cui si costruisce l’inevitabile attacco di terra.

Padesh: porta dell’inferno Cominciamo ad andare a sud a Padesh. È la porta chiave dei Balcani. Da una settimana su questo picco di 2000 metri si combatte e si muore. Xhevart c’è morto. La scritta a pennarello sopra la fossa porta solo due date: 15 giugno ’78-15 aprile ’99. L’hanno avvolto in una bandiera albanese di quelle rosse con le aquile e lo stanno calando giù. La sorella piange sommessa. Un giovane in divisa grida la “Lavde, lavde!”. Coraggio, coraggio. Il picchetto spara in aria. Xhevart, avvolto nella sua bandiera, si sta ricoprendo di terra. Ancora pochi minuti e sarà solo un tumulo in mezzo a 15 altri. Xservart, Agim, Rifat, Razim, e altri 11 nomi che sono scesi dalle montagne negli ultimi quattro giorni. Combattevano in quell’imbuto di quattro chilometri aperto dall’esercito di liberazione del Kosovo su quei picchi innaffiati di pioggia. Una battaglia disperata. Avanti nella melma, sulla cresta della montagna battuta dall’artiglieria serba. Poi un sentiero tra gli alberi e le colline precipitano verso il Kosovo. Infilati lì in mezzo, in questa trappola di due chilometri di larghezza, i combattenti dell’Uck avanzano alla disperata. Dai lati i serbi li bersagliano con l’artiglieria e con le mitragliatrici. Aprire un passaggio a tutti i costi è la parola d’ordine. Dal cielo nero ascolto i rumori degli aerei. E sono rumori di motori. Le bombe chissà dove cadono. Di sicuro non qui. Qui l’esercito sembra ben lontano dall’aver subito le perdite promesse ogni giorno a Bruxelles. “Combattiamo faccia a faccia – mi dice Arben che dei soldati serbi vede da dieci giorni le divise – ci spariamo da venti metri di distanza. Guadagnamo cento metri oggi e li perdiamo domani. Perché la Nato non ci aiuta?”. Già, la Nato. Qui sul fango albanese si fatica a cercarne le impronte. Gli Apache sono ancora soltanto una tribù di indiani. Gli omonimi elicotteri sono ancora in scatola di montaggio. Gli aerei da trasporto ne hanno scaricati solo nove. Ci vorranno ancora un paio di settimane per mettere in piedi la logistica necessaria a farli svolazzare. E intanto, cinque chilometri a sud di Padesh, i fanti serbi si dedicano a veloci escursioni nei villaggi albanesi. Un giorno qui, un giorno là. Al valico di Kamenice si sono già fatti vedere un paio di volte preceduti dalle bombe di mortaio. Una cinquantina di fanti serbi sono entrati e hanno bruciato tre case. Poi se ne sono andati. Indisturbati. Tropoje, un milione di abitanti, è stata inaffiata di bombe e mine lanciate con i missili.

Come animali braccati La popolazione albanese scende dalle montagne, sotto la pioggia, si rimescola ai profughi di oltre confine. Chi resta riscopre l’utilità dei piccoli bunker disseminati dal regime di Enver Hoxha. “Siamo pronti a difendere l’Albania” – promettono a Bruxelles. “Non abbiamo più da mangiare” – spiega più praticamente Ismail. Ha 72 anni, è rimasto con sua moglie e una decina di parenti nella cantina della sua casa di Tropoje. Vivono così, come topi, aspettando le bombe serbe e gli aiuti del governo albanese. Gli hanno portato su in fretta e furia dei sacchi di grano. Peccato che non sappiano come macinarlo. Sulla strada una ragazzina di 15 anni si tira dietro una mucca. La mamma scarpina più dietro. “Scappiamo giù, qui i serbi possono arrivare da un momento all’altro”. Se i serbi arrivano davvero? Rassomigliano alle Dolomiti queste montagne incantate all’estremo Nord-est del paese delle Aquile. Hanno strade costruite a picco sui dirupi, sentieri scoscesi, mulattiere incavate nel ventre della roccia. A Bruxelles dicono che al caso arriveranno i nostri. Ma da dove passeranno? La pioggia scende a rivoli, trascina terra molliccia e pezzi di montagna. La strada sobbalza al passaggio dei camion pieni di soldatini dell’Uck. Sobbalza, trema e si sgretola. I soldatini ora salgono a piedi. Il camion ulula nel fango. Immobile e inutile. Se arriveranno i nostri con i carri armati, computer e tonnellate di salmerie, forse se ne andranno le strade. Intanto se ne sta andando il rappresentante dell’Uck venuto qui su per aprire un ufficio. Se ne stanno andando i giornalisti. Problema numero uno: la sicurezza. Ci sono due guerre. Quella di Padesh e quella dei banditi. La seconda è la più pericolosa. Ti fermi dietro una macchina, ti chiedi perché non si muove, aspetti un minuto e poi vai a vedere. È successo al sottoscritto. Niente di strano, hanno solo sparato in testa al conducente. Il suo cervello è spappolato sul parabrezza. Il corpo rannicchiato sul sedile. Nulla di strano, avrà avuto a che dire. Qualche giorno fa, dopo un incidente stradale vicino ad una moschea. Uomini e bambini spostano macchina e morto e ti fanno passare.

Fratelli albanesi “Passare”, una parola che su queste strade è una scommessa, una partita a poker con un gruppetto di bari. Non sempre ci riesci. Una decina di giornalisti ha perso macchina e bagagli, soldi ed attrezzatura. Ti rapinano per strada e nella hall dell’albergo. Se ti va bene ti rivendono il bottino dopo qualche ora. 200, 300, mille dollari e passa la paura. Se ne è andato anche il rappresentante della guerriglia kosovara. Aria insicura, ha detto. E ha rinunciato ad aprire l’ufficio per i rapporti con la stampa. Giri a Bajram Curri e ti imbatti nei resti del Kosovo. Gente stralunata, alla deriva per i confini martoriati di questo paese devastato. Gashi, 27 anni, gira da una decina di giorni. Da qui a Kükes, da Kükes a Bajram Curri. Cerca la sua famiglia. Forse è arrivata qui, forse è sprofondata là, nella fanghiglia dei campi più a sud. Forse è rimasta a Glina, laggiù nel Kosovo. Forse sono stati soltanto uccisi. Chi lo sa? Intanto Gashi gira. 200 chilometri al giorno. Telefona, chiede, invoca. Scopre la “fratellanza” albanese. “Ci chiamavano fratelli, ma ci rubano tutto. Lei è un giornalista, per favore, lo scriva. Ci rubano il cibo, ci chiedono soldi per entrare nei campi, mi chiedono 100 dollari per farmi fare 100 chilometri. Che fratelli sono questi?”. I fratelli di Xhevart sono arrivati vicino alla tomba. Lei piangeva ancora. Sommessa e silenziosa. Lacrime nella pioggia, pioggia nel fango, fango sulle tombe. “Lavde, lavde!“, coraggio, coraggio. Il singhiozzio rotola nel vento. Il picchetto ha deposto il fucile e scava nuove tombe. Sono per i morti di domani, i corpi sono già all’ospedale. “Lavde, lavde!“, coraggio, coraggio. E ancora tanta, interminabile pazienza.

di Fausto Biloslavo Belgrado – “I cittadini di Belgrado si stanno abituando: alla mattina prendono il caffé, sui tavolini all’aperto del centro, e discutono del bombardamento del giorno prima, poi si preparano all’abituale allarme serale, come se la guerra fosse entrata a fare parte del tram-tram quotidiano”, osserva con sgomento uno dei pochi diplomatici occidentali rimasti in Jugoslavia. La Nato deve avere sbagliato qualche conto se pensava di piegare la Jugoslavia con l’arma aerea, perché i serbi sono duri a morire. Grazie alle bombe questo popolo, in perenne crisi economica e con la paranoia dell’accerchiamento, si è aggrappato all’orgoglio nazionale dimostrando al mondo una fermezza ammirevole e cocciuta. Nella capitale le manifestazioni di protesta che avevano fatto tremare la poltrona di Slobodan Milosevic ai tempi dell’opposizione di Zajedno, sono state sostituite da due appuntamenti spontanei e irrinunciabili. Verso ora di pranzo la piazza della Repubblica si riempie di gente e da un palco da concerto rock si susseguono le star della canzone locale. Tutti adottano come distintivo uno dei mille gadget inventati dall’inizio dei raid, che rappresentano la Jugoslavia come un enorme obiettivo dell’Occidente. Anche i bambini in carrozzella o i cani al guinzaglio non sfuggono a questo genere di simbolo composto da cerchi neri concentrici su sfondo bianco, come i bersagli di un poligono di tiro. Prima dell’allarme delle 20 i serbi più irriducibili si riuniscono sui ponti della Sava, che uniscono il centro di Belgrado alla periferia proletaria, per difenderli con il proprio corpo e attirare i giornalisti come le api sul miele. Non solo: un gruppo di buontemponi ha affittato una chiatta, che naviga sotto le arcate dei ponti, trasformata in cucina galleggiante. Per 1000 lire ci vogliono ormai 110 dinari, una cifra esorbitante, ma la gente sembra avere posto in secondo piano il collasso economico. Non esiste un’evidente penuria di beni di prima necessità e le code si formano solo ai distributori di benzina, perché il combustibile è razionato in tutto il paese. I vecchietti, che incassano di pensione 100mila lire al mese, sono i più scatenati nel paragonare i raid dell’Alleanza con l’invasione nazista del 1941 o addirittura la guerra contro gli austro-ungarici. Ogni giorno spunta un veterano decorato da inglesi, francesi o americani, per il coraggio dimostrato durante la seconda guerra mondiale, o per avere salvato dei piloti alleati abbattuti sulla Jugoslavia occupata da tedeschi e italiani, che rimanda al mittente le medaglie insultando Blair, Chirac o Clinton. I serbi non hanno nulla da perdere e lo dimostrano i 124 feriti nell’attacco, che ha distrutto gran parte della fabbrica automobilistica Zastava di Kragujevac. “Abbiamo deciso di proteggere l’impianto come scudi umani, perché rappresenta l’ultima risorsa di questa città. Se si ferma la fabbrica non mangiamo più. Per questo motivo, quando verrò dimesso dall’ospedale, tornerò a difendere la Zastava con il mio corpo” giura Ducan Lelobad, 49 anni, gravemente ferito, ma sopravissuto per miracolo al bombardamento. Se a Kragujevac gli scudi umani non demordono, a Cuprija, 60 chilometri più a sud, i civili bombardati fanno buon viso a cattivo gioco. Gli aerei della Nato, pur danneggiando seriamente un’importante caserma sul boulevard dedicato all’esercito jugoslavo, hanno piazzato due confetti a duecento metri dall’obiettivo, sgretolando una decina di abitazioni. Milo Stepanovic è un simpatico ragazzino di 10 anni che va a caccia di schegge intorno alla sua casa ridotta ad uno scheletro in cemento armato. Paffutello e sorridente ci racconta di Freddy, un coetaneo di Boston dal quale ha imparato l’inglese, che veniva a trovarlo d’estate grazie ai programmi di scambio alla pari. “Prima della guerra comunicavamo via Internet – spiega Milo pregandoci di pubblicare il suo appello – poi il suo recapito di posta elettronica deve essersi bloccato, ma vorrei dirgli che sono vivo e in attesa di un messaggio all’indirizzo vemis@ptl.yu. Anche se gli americani ci bombardano per me è sempre un amico”. Una delle storie quotidiane più struggenti di questa terra riguarda Teresa, una bella signora serba di mezza età, bionda e con gli occhi azzurri. Lavorava negli Stati Uniti, dove è nata sua figlia cittadina americana. Ora è sotto le bombe a Belgrado, dopo aver mollato tutto, compreso il marito, rientrando in Jugoslavia con l’ultimo aereo. “Non potevo rimanere negli Stati Uniti mentre la mia patria veniva bombardata dagli americani – spiega gentilmente Teresa – Ho portato via anche la mia bambina, perché se dovremo morire accadrà assieme e sulla nostra terra”.

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