Intuizioni leopardiane e concreti consigli di un prete e un rabbino

Di Luigi Amicone
03 Settembre 2016
Luigi Amicone
Alla contraddizione di grandezza e nullità che è l’essere nel mondo mi fa pensare sia don Villa, che ci ordina di «metterci a disposizione», sia l’ammonimento di Laras sulla durezza della natura

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Pubblichiamo l’articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Allorché venne la pienezza dei tempi, cioè nel tempo in cui un sistema digitale globale ci consentì di essere simultaneamente (sebbene solo con l’immaginazione) qui e altrove, sotto il cuoricino che non batte più o sopra il ditino puntato sui “responsabili”, a mettere a posto il mondo sembrò che fossero sufficienti prediche, parole e immagini.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”] Come nell’incipit di un romanzo (Dissipatio HG) di Guido Morselli, scritto cinquant’anni orsono, sembrò che la vita umana fosse riducibile a «relitti fonico-visivi» che «mi tengono compagnia, e sono ciò che di più diretto mi rimanga di “loro”. Puramente verbali, due (da notiziari della radio, suppongo): fallito dirottamento e riuscito stupro di una ragazza in un aereo dell’Olympic Airways… E due immagini: una bottiglia, con corona reale sullo sfondo, e la scritta in rosso: Seagram’s Canadian Whisky… Relitti inconsistenti, e ormai reliquie».

Proprio come nella famosa canzoncina di Lennon la pienezza dei tempi si risolse nella grande, tambureggiata, mentitrice, immaginazione sognante e sognatrice. «Imagine there’s no heaven. Imagine all the people. Imagine there’s no countries». Immagina che nessuno uccida o muoia. Ecco. Diamoci una bella scossa musicale, una batteria di hashtag, una moltiplicazione di emoticon, un drink, e insomma come col vecchio Cynar, la virtù social sarebbe stata la risposta al logorio della vita moderna. Così diceva la pienezza dei tempi secondo la mistica della Silicon Valley.

Ma io non ho pensato a queste bagatelle, a questo processo di riduzione della realtà a cortile della propria immaginazione, nel periodo in cui, per la prima volta dopo molti anni, mi è capitato di fare una lunga vacanza. Tre settimane di bellezza agostana. Bellezza di un’isola incomparabilmente perfetta nella sua natura selvatica (sto parlando della Sardegna). Bellezza di un paese, l’Italia, come se Dio avesse voluto dare il meglio di sé anche solo tratteggiando le cime dei monti della Laga (Abruzzo). Bellezza del polipo appena pescato che finisce innaffiato di Vermentino. Bellezza dei brindisi allo strabordante piacere di gustare strepitosi spaghetti alla chitarra, porcellini, arrosticini, agnellini, melanzane alla parmigiana…

Proprio come in una poesia di Leopardi: «Desiderii infiniti/ E visioni altere/ Crea nel vago pensiere/ Per natural virtù, dotto concento/ Onde per mar delizioso, arcano/ Erra lo spirto umano/ Quasi come a diporto/ Ardito notator per l’Oceano…». Proprio un’esperienza di piacere, gusto, felicità. Te la offre il cibo, così come te li donano la donna, il cielo, il caldo del sole, il frinire del grillo, certe notti incantate dalla luna piena e dalla pioggia di stelle. Allo stesso modo, come nel canto di Leopardi, nel cuore stesso del piacere di vivere, ecco insinuarsi il dispiacere, la malinconia, la tristezza. Dice bene il poeta: «Ma se un discorde accento/ Fere l’orecchio, in nulla/ Torna quel paradiso in un momento». Di qui l’eterna e unica questione seria della vita che nessuna civiltà del qui e dell’altrove simultanei, dello scientismo evanescente così come del superomismo progredente, riuscirà mai a tacitare. «Natura umana, or come/ Se frale in tutto e vile/ Se polve ed ombra sei, tant’alto senti?». O detto altrimenti: «Se in parte anco gentile/ Come i più degni tuoi moti e pensieri/ Son così di leggeri/ Da sì basse cagioni e desti e spenti?».

A questa contraddizione di grandezza e nullità che è l’essere nel mondo mi fa pensare, tanto il don Villa che davanti al terremoto ha messo al bando emoticon e polemiche per ordinarci: «Mettiamoci a disposizione!». Quanto il rabbino Laras che, davanti a tanto lutto e dolore, non ha accettato nessuna consolazione, tantomeno religiosa, ma ha ordinato «il silenzio, assieme all’aiuto a chi ha bisogno». Altro che stare accoccolati sulle coccole, sullo showbiz del dolore e sulla ricerca delle responsabilità. «Quando, nella Genesi, Dio giudicò buoni o molto buoni gli elementi creati, dobbiamo ricordarci che sono tali nella Sua prospettiva, e non necessariamente nella nostra. Noi esperiamo la natura per come la definì Leopardi: muta e incurante, madre e matrigna. La durezza del reale dovrebbe mettere in guardia teologi melensi e ambientalisti ideologici». Così come, ha ammonito Laras, «la decadenza di un popolo inizia quando pensa che la sfida sia insuperabile: non deve essere il nostro caso. L’enorme sforzo politico, culturale ed economico che ci attende non è procrastinabile, poiché riguarda anche la ripresa economica e lavorativa del Paese».

@LuigiAmicone

Foto Ansa

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