Il falegname-Aquaman di Tonga, l’eroe antieroico che non voleva dar pena a nessuno

Di Caterina Giojelli
24 Gennaio 2022
Dopo l'eruzione è rimasto in acqua più di 27 ore, non ha risposto al figlio che lo chiamava per salvarlo, ha cercato un tronco su cui morire e alla fine si è salvato nuotando
Lisala Folau durante un'intervista a Sky News durante la quale ha raccontato la sua impresa nei giorni scorsi

Lo hanno già ribattezzato “Real-life Aquaman” per quelle 27 ore trascorse a mollo sotto il sole e la luna nell’arcipelago salato di Tonga, dopo essere stato travolto dallo tsunami. Un supereroe mezz’uomo mezz’atlantideo? Macché: un falegname in pensione e traballante su due gambe che nemmeno gli consentono di deambulare come gli altri. Del leggendario Aquaman, tradotto dal fumetto al cinema da Jason Momoa, colossale americano di sangue hawaiano, il nostro falegname non ha nulla; nulla di un semidio che doma le creature marine, nulla nemmeno di un più tradizionale pescatore avvezzo al brulicare di pesci nelle acque del Pacifico meridionale.

Cercavamo un eroe a Tonga, eccolo

Eppure era il falegname che aspettavamo con trepidazione: per giorni abbiamo atteso che quell’arcipelago di isolette, un tempo lussureggianti e ora nelle immagini dei droni tanto simili a ciabatte essiccate, sputasse fuori dai detriti un uomo, una donna, un bambino, un urlo, un movimento, un pianto. Ci sarà pure un eroe di Tonga, un “resiliente”, qualcuno di cui parlare, una storia da rendere “virale”, mentre la Nasa ripete: «L’eruzione del vulcano sottomarino Hunga Tonga-Hunga Haʻapai è stata 500 volte più potente dell’atomica su Hiroshima».

Ed eccolo qui, l’omino della Provvidenza giornalistica, Lisala Folau, 57 anni, sopravvissuto a dieci megaton, qualunque cosa significhi, più tenace dei cavi sottomarini e più forte delle case sbriciolate a Tongatapu, un omino piccolo così e due occhi grandi per guardare nell’obiettivo dei fotografi della stazione radiofonica tongana Broadcom FM, dove è stato subito raggiunto dalle troupe a caccia del volto-simbolo di Tonga. Sorride, fuori il suo mondo è ricoperto di cenere ma lui è di blu sgargiante vestito, mentre racconta le sue 27 ore alla deriva, tra isole disabitate, motovedette che non si fermano, la sagoma delle Tongatapu che sbuca fuori all’improvviso.

Quel «eccomi, sono qui» non detto

Era la sera di sabato 15 gennaio. Dov’era finita sua nipote? Sull’isola di Atata si era fatto buio e l’acqua nera e gonfia di cenere e detriti lo stava portando al largo. Riviveva con ansia le ore precedenti, stava imbiancando allegro la sua casetta quando aveva visto suo fratello più grande e la nipote Elisiva correre all’impazzata sbracciandosi verso di lui, seguiti a ruota dal muro d’acqua più alto che il falegname avesse mai visto. La prima onda aveva fatto irruzione in casa, la seconda, alta oltre sei metri, se l’era inghiottita.

Zoppicando Lisala aveva trovato rifugio in cima a un albero con Elisiva, quando il fratello era scivolato giù dalla pianta promettendo che sarebbe tornato con i soccorsi. Ma il tempo passava, le gambe malconce del falegname dolevano, quando insieme alla nipote ebbe la pessima idea di calarsi a terra. Sembrava che l’acqua li stesse aspettando: la morsa fredda li afferrò improvvisa e in un battibaleno Lisala annaspava lontano dalla costa. Fu allora che la udì, nell’oscurità: la voce lontana di suo figlio.

Chi non avrebbe sentito il cuore rallegrarsi al suono di una voce che ci cercava, la voce di qualcuno che non ci avrebbe lasciato mai in mare? Non Lisala. Lisala decise di soffocare il grido “eccomi, sono qui”, e di non essere salvato. «La verità è che nessun figlio può abbandonare suo padre. Ma io, come padre, dovevo mantenere il silenzio, perché se gli avessi risposto lui sarebbe saltato in mare e avrebbe cercato di salvarmi». Rischiando la vita per suo padre. La corrente lo portava lontano e Lisala sentì la voce spegnersi. Decise che però una cosa doveva farla per la sua famiglia: trovare un tronco, trovare un albero galleggiante sul quale issarsi stremato e che avrebbe potuto restituire almeno un corpo morto ai suoi cari.

Motoscafi, galleggiamenti e bracciate

E così l’obiettivo di Lisala divenne cercarsi una bara. Ma qualcosa stava per intralciare il suo piano. Prima il lembo di terra del minuscolo e deserto isolotto di Toketoke sul quale il falegname riuscì a dare tregua alle braccia sfinite. Poi il borbottare di un motore, il delinearsi alle prime luci del giorno di una motovedetta della polizia diretta ad Atata. Lisala provò ad agitare uno straccio ma nessuno a bordo, in quell’oceano gorgogliante di detriti, piante, oggetti, cenere, se ne accorse. Aspettando il ritorno dell’imbarcazione l’uomo decise allora di provare a raggiungere l’isoletta che sotto il sole gli pareva più vicina: quanto vicina?

Otto ore di galleggiamenti e bracciate dopo, il falegname si rese conto di aver raggiunto Polo’a, un’altra piccola terra disabitata. Nessuno lì lo avrebbe soccorso, pensò. E chissà perché, all’improvviso pensò anche al dolore delle persone care, quello della nipote dispersa, di sua figlia piccola malata di cuore, di sua sorella malata di diabete. E allora rientrò in acqua, deciso a raggiungere la punta occidentale dell’isola di Tongatapu.

Fuori dal calderone del Pacifico

Lo ritrovò un automobilista, barcollava sul ciglio di una strada asfaltata, i vestiti, i polmoni zuppi di acqua di mare. In capo a poche ore Lisala aveva riabbracciato i suoi figli, i giornalisti avevano la loro storia, i campioni olimpici di nuoto rilasciavano dichiarazioni sulla «pressione mentale» inimmaginabile che aveva gravato sulla nuotata del falegname in lotta per la sopravvivenza. Eppure quell’uomo del semidio che tiene testa alle feroci potenze naturali non ha nulla. Il falegname sorride nella sua camicia blu, dopo aver galleggiato nel calderone del Pacifico, rimestato con i pesci e i detriti in ciò che restava di magma, esplosioni a catena, maremoto, badando solo a non dare pena a nessuno.

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