
Trattativa Stato-mafia, lo spettacolo continuerà nonostante «l’ossimoro processuale superteste-calunniatore»
«Per quattro anni», ricorda Mariateresa Conti sul Giornale, i grandi quotidiani (Corriere della Sera e Repubblica su tutti) e salotti tv (Santoro in testa) hanno dato «caccia grossa all’uomo depositario di trent’anni di misteri, lo 007 deviato che faceva da tramite tra istituzioni e boss, l’uomo chiave della trattativa Stato-mafia». Per quattro anni fior di cronisti giudiziari hanno di fatto avvalorato (con titoloni a nove colonne e chilometri di brogliacci di interrogatorio) la tesi dell’esistenza di questo misterioso personaggio, e quindi della trattativa in quanto tale. Ieri però, mercoledì 22 ottobre 2014, l’Italia ha improvvisamente “scoperto” che il «signor Franco» – così lo aveva poco fantasiosamente battezzato Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Don Vito, e super teste del processo palermitano sul presunto patto tra lo Stato e Cosa nostra – non esiste.
IL BARISTA. O meglio, ha scritto su Repubblica Attilio Bolzoni, un aficionado delle sparate di Ciancimino, «il misteriosissimo “signor Franco” delle trame mafiose, il famigerato personaggio evocato da Massimo Ciancimino come ponte fra Stato e Cosa Nostra, è il proprietario di un bar di Roma», «un tranquillo commerciante dei Parioli». La tragica verità «si è svelata con il rinvio a giudizio del piccolo Ciancimino – dal giudice di Caltanissetta – per calunnia aggravata contro Gianni De Gennaro, l’ex capo della polizia identificato dallo stesso Ciancimino come quel “signor Franco” che teneva contatti ravvicinati con suo padre per conto dello Stato. Una farsa». Infatti, proprio «investigando sulla calunnia nei confronti di De Gennaro», i magistrati di Caltanissetta hanno «scoperto chi è il vero “signor Franco”». Ciancimino aveva detto di essersi fatto aiutare da lui «per tentare di ottenere il rilascio di un passaporto», e in effetti, continua Bolzoni, davvero «un “signor Franco” si era adoperato per quei passaporti». Solo che non era una scheggia impazzita del servizio segreto, né era tanto meno De Gennaro. Trattavasi di «uno che si chiama davvero Franco, Franco M., titolare del bar Toma’s in piazza Euclide a Roma». Bolzoni: «Alla fine questo “signor Franco”, richiamato in mezzo a tranelli mafiosi e grandi segreti di Stato, è uno che non ha nulla che fare con apparati e cospirazioni».
TRAVAGLIO E IL PLURI-BALLISTA. Appresa la surreale notizia, sono in tanti oggi a sottolineare quanto credito sia stato assurdamente concesso, tra giornalisti e toghe, a Ciancimino, questo preteso super teste che Antonio Ingroia, il pm padre del processo sulla trattativa, definì «una icona dell’anti-mafia».
«Anche questa ennesima patacca» di Ciancimino, scrive sul Foglio Massimo Bordin, «diviene oggetto di un altro processo a Caltanissetta dove però Ciancimino jr. sarà l’unico imputato. Per calunnia. Reato del resto di cui è imputato anche a Palermo nel processo dove è teste d’accusa. E non un teste d’accusa qualsiasi ma “il principale teste d’accusa” come scrisse Marco Travaglio dopo che una sentenza, che aveva assolto il generale Mori, definiva menzognere le accuse del giovanotto al generale. “E che importa?” sostenne il condirettore del Fatto “il suo ruolo in quel processo era di teste marginale, mentre per la vicenda della trattativa il suo peso è decisivo”. Lo stesso dirà oggi, probabilmente. Solo Travaglio può sostenere che un pluri-imputato di calunnia possa essere l’architrave di una accusa».
SPUTTANATORE AL FESTIVAL DELL’UNITÀ. «Sarebbe divertente, un bel giorno, pubblicare le intercettazioni tra Massimo Ciancimino e i tanti giornalisti che per anni hanno amplificato le sue balle: ma non basterebbero due edizioni di Libero», si diverte a scrivere Filippo Facci, ricordando come «questo “teste chiave” del processo sulla trattativa» si sia rivelato essere, mano a mano che passava il tempo e si svelavano le bufale, nient’altro che un «ex scortato a spese nostre, gradito ospite di talkshow e di Festival dell’Unità e del Giornalismo, autore di libri Feltrinelli col povero Francesco La Licata, falsificatore di documenti e “papelli”, erede di tesoretti, evasore fiscale, inventore di un “signor Franco” ponte tra Stato e Mafia, sputtanatore di galantuomini e perciò processato, inventore di somme cazzate (su Berlusconi, Dell’Utri, Ustica, cattura di Riina, latitanza di Provenzano, caso Moro) e naturalmente cocco di Marco Travaglio». E cosa è rimasto delle sue sensazionali «propalazioni»? Niente, conclude Facci.
CI MANCHERANNO LE SUE SPARATE. Michele Serra, invece, si rammarica su Repubblica per «la progressiva evaporazione delle “clamorose rivelazioni”» di Ciancimino. Ma non ce l’ha, Serra, con i colleghi e i magistrati che per anni hanno creduto a un pataccaro. Preferisce piuttosto prendersela con i «talk show televisivi», i quali con la loro superficialità non hanno consentito di «maneggiare con una certa delicatezza» quel «qualcosa di vero» che «c’era di sicuro» nelle sparate di Ciancimino. E dunque, «poiché i rapporti tra Stato e Mafia ci sono stati davvero», conclude Serra, «ora sarebbe veramente triste se, per l’impulsività di alcuni, andasse a monte l’interesse di tutti: che è saperne di più».
L’OSSIMORO INVISIBILE. Insomma, i sostenitori della tesi della trattativa – giornalisti o pm che siano – non cedono neanche di fronte all’evidenza. Così come non scalfisce le convinzioni di Serra, «l’ossimoro processuale superteste-calunniatore non preoccupa i pm palermitani che si occupano di questo dibattimento», osserva Riccardo Arena sempre sul Foglio. Tanto meno li preoccupa adesso che sono «impegnati a preparare la madre di tutte le udienze», quella della deposizione di Giorgio Napolitano, «quella in cui – c’è da giurarlo – tenteranno il colpo grosso al Quirinale, per risollevare un processo che si è afflosciato anche su quei giornali che pure lo avevano sostenuto e lo sostengono». Del resto tutto il procedimento «vive ormai del tentativo di trascinare il presidente della Repubblica – o di dare l’impressione “che ci sia comunque qualcosa” su di lui – nel gorgo di una vicenda tutta da dimostrare, quella dei presunti accordi inconfessabili nel periodo delle stragi del ’92-’93. Ciancimino è un (presunto, per carità) calunniatore ma anche un (altrettanto presunto, in verità) superteste. E non c’è verso di schiodare questa convinzione, fra i tre o quattro pm della procura di Palermo che ancora gli prestano fede».
Eppure, ragiona Arena «non si può ignorare che qualcosa non funziona, in un uomo che sosteneva – in conversazioni intercettate – di avere utilizzato il computer del pm Ingroia per entrare nelle banche dati di polizia, Guardia di Finanza e quant’altro». A meno di non cucirgli addosso «la teoria della credibilità frazionata». E cioè: «Affidabile, il Cianci, quando parla dei grandi misteri d’Italia, un mezzo minchione quando cazzeggia sui computer di Ingroia».
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