
Tutta la verità sull’economia ungherese. «Non vogliamo aiuti da nessuno»
Laszlo Csaba è uno degli economisti ungheresi più quotati, visiting professor di molte università europee (Bocconi di Milano, Berlino, Helsinki, Francoforte), membro del comitato di redazione delle principali riviste economiche internazionali e componente dell’Accademia ungherese delle Scienze. Ma soprattutto Csaba è noto per la sua indipendenza di giudizio, piuttosto rara nel dibattito sulle questioni ungheresi, molto polarizzato a livello interno così come a livello europeo. Il governo di Viktor Orban è stato molto criticato, fra le altre cose, per le sue politiche economiche non ortodosse, da molti considerate la causa dell’attuale stagnazione del Pil ungherese: di volta in volta la riforma costituzionale della Banca centrale, l’introduzione della flat tax al 16 per cento, le tasse sui profitti bancari, le misure non strutturali di riduzione del deficit, ecc. sono finite nel mirino dei giornali finanziari europei e delle istituzioni di Bruxelles. Nella lunga intervista che segue Csaba fa il punto di tutte le questioni allargando gli orizzonti dell’analisi ora alle specificità di tutta l’area costituita dall’Europa ex comunista, ora alla situazione economica generale del continente.
Professor Csaba, perché per l’economia ungherese non arriva la ripresa? Dipende dalla situazione internazionale o da politiche governative errate? Quando tornerà a crescere il Pil ungherese?
I nostri problemi dipendono da un insieme complesso di cause. L’economia ungherese ha smesso di crescere nella seconda metà del 2006, cioè sei anni fa, e questo significa che l’attuale stagnazione non è ciclica, ma strutturale. È il risultato dell’accumulazione di molte crisi, di mancate riforme e di riforme ritardate, ed è per questo motivo che non è facile trovare il rimedio. Quando l’attuale governo entrò in carica due anni fa, era diffusa la convinzione che liberandosi dei peccatori anche i peccati sarebbero scomparsi, ma questo era sbagliato, perché i peccati restano. Soprattutto in presenza di una struttura economica nella quale poche persone lavorano, è meglio lavorare nell’economia clandestina che in quella regolare e tutti evadono le tasse se hanno la minima possibilità di farlo. Su una forza lavoro di 7,5 milioni di persone, solo 1,7 milioni pagano per intero tasse e contributi. Con la recente riforma dell’amministrazione fiscale e l’introduzione dei programmi di lavori sociali, la cifra è salita a 3 milioni, ma questo non significa che paghino tutte le tasse che dovrebbero. Quelli che pagano anche i contributi previdenziali, assistenziali, ecc, restano sempre 1,7 milioni. In secondo luogo, il governo ha creduto ingenuamente che la ripresa che si stava delineando nel 2010 avrebbe trasformato automaticamente l’Ungheria in un’economia in crescita, le aspettative erano che con una crescita del 5% e più si sarebbero compensate le perdite passate e si sarebbero potuti finanziare nuovi programmi. Ma l’economia non ha ripreso a crescere, per due buone ragioni. La prima è la crisi finanziaria mondiale del 2010, che ha avuto un influsso molto negativo sull’Ungheria; nel giro di un anno, a partire dal giugno 2011, il mercato ha smesso di crescere e l’incertezza intorno ai paesi vulnerabili della periferia europea, fra i quali l’Ungheria, ha preso ad aumentare. I costi del debito sono saliti alle stelle: l’anno scorso ci siamo ritrovati con un aumento del Pil dell’1,5%, ma allo stesso tempo il servizio del debito si è portato via una cifra pari al 4,5% del Pil. Il servizio del debito ha impedito un utilizzo domestico del 3% del Pil. Da cui la stagnazione economica, che ha compromesso una delle più importanti promesse del governo, quella di rivitalizzare le piccole e medie imprese (Pmi). Ma se non c’è mercato, potete fare tutto quello che volete con schemi di incentivi, con tasse più basse, ecc: l’attività delle Pmi resterà stagnante. Il governo non aveva allora un piano economico dettagliato, con tutte le cifre da allocare, aveva un piano generale, una visione delle cose che voleva fare; perciò ha reagito alla mutata situazione in modo casuale e incoerente, ed è stato infine costretto dalla Commissione Europea e dalla Germania a condurre una politica di estrema prudenza contro i deficit di bilancio. Ma se voi riducete il deficit di bilancio proprio quando l’economia non cresce, siete costretti ad aumentare le tasse, e se aumentate le tasse raffreddate l’economia. L’economia ungherese non cresce a causa di strettoie strutturali sue e a causa delle condizioni generali sfavorevoli dell’economia globale a partire dall’estate del 2011. L’economia europea è stagnante, e noi siamo molto sensibili all’economia europea perché siamo un paese dove l’80 per cento del Pil dipende dall’import/export. Siamo un’economia estremamente aperta, paragonabile in questo a quelle di Belgio e Olanda. Se l’economia europea ristagna, anche la nostra ristagna. Dunque riassumendo le ragioni della mancata crescita sono tre: l’eredità costituita dall’alto indebitamento e da problemi strutturali; il clima internazionale estremamente sfavorevole; le esitazioni del governo di fronte alla necessità di misure radicali. Non dico che il governo non abbia fatto nulla: ha cominciato a riformare il mercato del lavoro e gli ammortizzatori sociali, ma queste misure faranno sentire i loro effetti nel giro di 5-6 anni, com’è successo quando sono state introdotte in Germania. Infine bisogna dire che a causa dell’improvvisazione e dei frequenti cambiamenti delle regole, il livello della fiducia verso questo paese è molto basso. E questo forse è l’ostacolo principale agli investimenti. Se non c’è fiducia, il denaro non viene investito e non viene creata occupazione. Non ci sono facili soluzioni a questa situazione, perché prima dobbiamo riguadagnare la fiducia della gente, poi gli investimenti, e quando c’è la fiducia e ci sono gli investimenti, si crea lavoro e torna la crescita.
Le banche e il settore finanziario in generale si lamentano delle troppe tasse sui profitti finanziari che il governo ha introdotto. Hanno ragione o hanno torto? Dobbiamo temere, a causa di queste tasse, un credit crunch a danno delle imprese?
Purtroppo questo sta già accadendo, ed è un fenomeno regionale, non è limitato all’Ungheria. Si tratta di un processo che porta il nome gentile di “new banking model”, dovuto in parte alle regole di Basilea che impongono una condotta più prudente delle attività di credito e impongono una più alta percentuale di capitale proprio rispetto alle attività della banca; ma è dovuto anche a quello che nel gergo bancario si chiama “deleveraging”. Che significa che se non vuoi aumentare il capitale sociale per rientrare nei parametri di Basilea, allora riduci il volume dei prestiti che hai messo a disposizione e così il rapporto fra capitale e credito migliorerà, a scapito di chi ha bisogno di credito. Questo “deleveraging” è iniziato nel 2009 e da allora non si è ancora arrestato. Ha avuto inizio in Romania e in Polonia e poi si è trasmesso agli altri paesi. L’anno scorso in Ungheria il credito distribuito è diminuito del 12% circa, e l’associazione bancaria prevede lo stesso andamento per quest’anno. Questo si traduce in qualcosa che possiamo considerare credit crunch. Da noi non è pesante come nel Regno Unito o negli Usa, perché in Ungheria gli attori nel mercato finanziario sono tre, e nessuno di essi utilizza molto credito. Le grandi multinazionali presenti nel paese si finanziano presso la casa madre o sul mercato internazionale dei capitali, le Pmi si autofinanziano e lo Stato non è molto sensibile al tasso di interesse. Presi insieme, questi tre attori fanno capire che il credito non è così importante come sembrerebbe. Non intendo sottovalutare l’importanza del deleveraging e della contrazione del credito; quel che voglio dire è semplicemente che si tratta di un fenomeno regionale, non di qualcosa scatenato da provvedimenti assunti dal governo ungherese, anche se si può discutere l’incidenza di alcuni particolari provvedimenti. Ma si tratta comunque di un processo molto più vasto, e se si guarda dal punto di vista delle possibilità di una ripresa, queste non sono certo brillanti nel medio termine. Senza credito è difficile realizzare un boom economico.
La tassa speciale sui profitti bancari e la flat tax sono state criticate e giudicate inefficaci come strumenti per un ritorno alla crescita. Lei cosa ne pensa?
La flat tax è un passo nella giusta direzione, perché è un incentivo a lavorare di più e perché promuove una maggiore giustizia sociale. Il nostro sistema di tassazione reale è regressivo: parlo di quello reale, non di quello nominale. Le faccio un esempio. Io lavoro in università e ricevo uno stipendio che è interamente tassato: sono uno di quei 1,7 milioni di ungheresi che pagano interamente le imposte. Il mio collega che lavora in un Istituto di ricerca, che è una società a responsabilità limitata, riceve un salario doppio di quello minimo più i dividendi dell’attività. Paga il 20 per cento di imposte sull’80 per cento delle sue entrate, mentre io pago il 53 per cento quando si calcolano tutte le tasse. La differenza è che lui lavora in un’impresa, io in università. Dunque un sistema fiscale che sembra progressivo in realtà è regressivo. La flat tax diminuisce un po’ questa regressività, anche se gran parte dell’arbitrarietà del sistema resta intatta, ed è tipico dei sistemi impositivi di origine socialista. Perciò io penso che la flat tax è un passo nella giusta direzione. Per quanto riguarda la tassa sui profitti bancari, è più una questione di modi che di sostanza. Le banche stesse riconoscono che le loro attività sono state altamente redditizie, e fino ad ora non abbiamo visto nessuna grande banca chiudere i battenti. Continuano a lamentarsi, e questo è un chiaro segno che la loro attività produce profitti. Le discusse tasse sulle banche sono più un problema di stile che di sostanza, il governo ha agito unilateralmente senza consultare il settore finanziario. Ma le cose stano migliorando: recentemente c’è stata una grossa conferenza alla quale ha parlato il primo ministro, e al pranzo di gala che è seguito Viktor Orban sedeva allo stesso tavolo col presidente dell’associazione bancaria ungherese e con grandi investitori. Dunque il dialogo c’è. Non so se sia un dialogo reale ed efficace come vorrebbero i banchieri, perché il primo ministro è molto convinto dell’idea di coinvolgere il settore finanziario nell’aumento del gettito fiscale più di quanto si sia fatto in passato. Io direi che la tasse sui profitti bancari non sono un problema nella misura in cui l’attività finanziaria produce profitti. Il problema del settore bancario è quello di cui abbiamo detto prima: il deleveraging. Ed è un problema che non ha niente a che fare con la flat tax o con la tassa sui profitti bancari.
Cosa dovrebbe fare il governo di Fidesz per ridurre il grosso debito che ha ereditato dal precedente governo liberal-socialista?
Anzitutto deve essere chiaro che se in Europa non c’è crescita, non si uscirà dalla crisi del debito. Se c’è crescita, se i conti pubblici sono gestiti decentemente, se la spesa pubblica è sostenibile, il debito non è un problema. Nel senso che un’economia in crescita genera gettito fiscale, un budget in equilibrio trattiene il governo dal creare debito aggiuntivo, e la crescita e l’inflazione abbassano il costo del servizio del debito. Questo accade realmente in un gran numero di paesi europei. In secondo luogo, si tratta di gestire il bilancio in modo sostenibile, e questo implica tagli alla spesa. Questo è stato iniziato, ma c’è ancora molto da fare nelle imprese pubbliche come le ferrovie e i trasporti locali; nelle amministrazioni pubbliche cominciando dalle amministrazioni municipali, dove ci sono esuberi ma è molto difficile procedere a tagli perché spesso sono governate dallo stesso partito che è al potere a Budapest. D’altra parte nelle regioni lontano dalla capitale spesso non c’è altra possibilità di guadagnarsi uno stipendio se non nelle amministrazioni municipali. Per questo è un atto di governo molto difficile, ma che va compiuto. In terzo luogo, bisogna aumentare la base imponibile aumentando i posti di lavoro: più gente paga le tasse, meno tasse si pagano, questo si sa. Se le tasse sono basse, diventa più facile pagarle che evaderle. Abbiamo visto accadere questo in Estonia, in Slovacchia, in Polonia, in Romania. Il problema è che il programma di lavori pubblici che il governo ha iniziato non è molto efficiente, non si sostiene da sé e non genera sufficienti entrate fiscali. Per questa ragione abbiamo bisogno della ripresa delle Pmi, che creano posti di lavoro produttivi. Naturalmente abbiamo anche bisogno di migliorare la formazione professionale per dare alla gente qualifiche utili per guadagnarsi da vivere. Dunque le tre chiavi per la riduzione dell’indebitamento sono la crescita, finanze pubbliche sostenibili attraverso riforme strutturali e più posti di lavoro: tutto il resto sono soluzioni temporanee. Ma se questi tre fattori agiscono in contemporanea, allora c’è un notevole miglioramento come si vede nel caso della Slovacchia. Quel paese nel 2000 si trovava nelle stesse condizioni dell’Ungheria, con un debito pubblico pari al 52 per cento del Pil, scarsa fiducia e un’amministrazione pubblica debole, ma è tremendamente migliorato. Hanno più volte alternato governi di destra e sinistra, e attualmente è tornata a governare la sinistra, ma c’è stata continuità nelle politiche economiche. Hanno la crescita, e grazie alla crescita la finanza pubblica è sostenibile. Ora vedremo se il primo ministro, il socialista Robert Fico, continuerà su questa strada o rovinerà tutto, ma io credo che non vorrà rovinare tutto perché non sarebbe nel suo interesse. Oggi hanno i requisiti per entrare nell’euro, e questo grazie al fatto che hanno creato un’economia dove sono all’opera i tre fattori che ho sopra detto. Dunque si può fare, non è un sogno. E così torniamo alla prima domanda: quando ricomincerà a crescere l’Ungheria? È improbabile che accada presto, non c’è molto che si possa fare per forzare la crescita. E d’altra parte non possiamo accettare l’argomento dei Verdi secondo cui siamo già cresciuti abbastanza: questa non è la percezione della maggior parte della gente. Dobbiamo tornare a crescere; ovviamente non nelle industrie pesanti o nell’industria mineraria o nelle infrastrutture stradali. Dobbiamo crescere nei prodotti ad alto valore aggiunto, come tutti quelli relativi all’informatica, e nei servizi: settori che non hanno ricadute negative sull’ambiente, che non producono inquinamento.
Recentemente lei ha scritto che l’Ungheria non ha bisogno di un prestito da parte del Fondo monetario internazionale (Fmi). Perché? Tutti, compreso il governo, sembrano pensare il contrario.
Io penso che l’Ungheria deve rimanere sul mercato. I bond ungheresi, sia quelli dello Stato che quelli delle grandi imprese, sono stati acquistati sul mercato dei titoli e lo spread rispetto ai titoli tedeschi è di poco superiore alla probabile media storica, una cosa giustificata dal contesto generale: la crisi greca, la crisi delle banche spagnole, il lento miglioramento del Portogallo e dell’Italia, il punto interrogativo che riguarda la Francia. Dobbiamo pagare qualcosa più del bund tedesco, perché non siamo la Germania. Siamo la periferia europea, ma stiamo pagando poco più della probabile media storica del nostro spread: siamo a 250 punti, mentre la media storica è intorno ai 200, dunque è sostenibile. È importante stare sul mercato, essere testati dal mercato, dimostrare che gli investitori hanno fiducia in noi. Parte della stampa non ha questa fiducia, come pure parte del Parlamento europeo. Il miglior argomento con cui possiamo rispondere è mostrare quello che accade sui mercati, mostrare che quello di cui l’Ungheria ha bisogno lo trova sui mercati. Diversamente dal 1998 e dal 2005, quando eravamo governati dai socialisti in entrambi i casi, non siamo in bancarotta, non abbiamo bisogni immediati, non affrontiamo una crisi di liquidità nè tanto meno di insolvenza. Il bilancio ungherese presenta un avanzo primario per il quarto anno consecutivo. Non abbiamo bisogno di un prestito. La crisi che aveva spinto il governo a rivolgersi al Fmi nel novembre-dicembre 2011 è finita. Siamo di nuovo sui mercati e non abbiamo bisogno di un accordo, anche se sarebbe meglio concluderne uno. Per avere a disposizione una linea di credito precauzionale, non un prestito effettivo, se l’Fmi è disponibile a darci questa linea. Penso che sia importante non concludere affrettatamente accordi in base a termini sfavorevoli nel momento in cui non siamo veramente in difficoltà. La risposta migliore a quanti dubitano della nostra credibilità è che siamo ancora sui mercati. Questa è una delle previsioni che ho azzeccato, perché in dicembre ho scritto che non ci sarebbe stato un crollo né un accordo, e questo è ciò che è accaduto. Certo, le cose possono cambiare in modo imprevedibile. Ma il deficit è sotto controllo e l’avanzo primario di bilancio sussiste. Questo è il lato positivo di una situazione negativa. L’avanzo primario è segno di una stagnazione dell’economia, perciò non c’è da essere troppo contenti. Ma è il lato positivo della situazione. Credo che attualmente l’Fmi abbia abbastanza clienti, perciò loro non hanno bisogno di noi e noi non abbiamo bisogno di loro. Forse possiamo accordarci per una linea di credito precauzionale, che ci toglierebbe dalle incertezze. Attualmente non abbiamo contrasti di vedute col Fmi, come invece è accaduto nel 1998 e nel 2005. Quello che ci hanno chiesto in termini di riforme strutturali, è già diventato legge o sta per essere approvato, inclusa una raccolta più efficiente delle tasse, la creazione di maggiori incentivi al lavoro, l’equilibrio di bilancio: questi obblighi ora si trovano dentro alla costituzione ungherese. E sono parte del fiscal compact adottato a livello europeo. Ci vorrà tempo prima che queste cose facciano sentire il loro effetto, ma intanto il rapporto debito/Pil sta migliorando. Siamo uno dei pochi paesi dove sta migliorando.
Nel dibattito fra i fautori dell’indipendenza della Banca nazionale ungherese e quelli del suo controllo da parte dell’esecutivo, lei come si colloca?
In una piccola economia molto aperta sull’esterno com’è quella dell’Ungheria, la banca centrale è un attore marginale. Il tasso d’interesse non è deciso da chi governa la banca: questa è la regola formale, ma non è la realtà. Nella realtà di un’economia molto aperta è il mercato che decide il tasso d’interesse: adesso il nostro spread rispetto ai titoli tedeschi è del 2,5 per cento, e non c’è modo di intervenire. Dunque la reale autonomia e sovranità della banca centrale è comunque molto limitata. La banca centrale per l’economia è come il freno per un’auto; ma se avete un’auto dove c’è solo l’acceleratore e non ci sono i freni, avrete qualche difficoltà. Premesso questo, l’indipendenza della banca centrale va salvaguardata, l’esecutivo ha già abbastanza influenza oggi: ha nominato la maggioranza dei componenti del Consiglio monetario, e l’anno prossimo nominerà anche due vicegovernatori che si affiancano al governatore: un terzo vigovernatore è del tutto superfluo. Dare l’impressione che il governo voglia influenzare le decisioni della banca centrale è un errore, è del tutto sbagliato. E se guardiamo a come stanno andando le cose, non si rileva un condizionamento diretto da parte del governo: anche se nel Consiglio monetario i membri che fanno riferimento all’esecutivo sono la maggioranza da un anno e mezzo a questa parte, le cose continuano a funzionare come prima dal punto di vista delle politiche monetarie. Al tasso d’interesse fissato dalla Banca Nazionale ungherese non è successo nulla. Si continua con una linea simile alla vecchia linea Duisenberg/Trichet della Bce, che ragionava sul medio termine e non reagiva agli sviluppi a breve termine del mercato. Diversamente dalla Fed americana, che reagisce sempre nell’immediato. Era così prima e resta così ora. Questa per molti commentatori è una sorpresa. Il team della banca centrale sta lavorando come una squadra di professionisti che hanno background differenti e probabilmente lealtà politiche diverse, che si lamentano gli uni degli altri, ma che alla fine sono uniti dall’impegno a servire il paese, a sostenere la stabilità dei prezzi e un basso livello di inflazione. Attualmente la banca centrale è un ente che funziona, e che bilancia le idee ambiziose di un uomo visionario e fautore della crescita a tutti i costi come il ministro dello sviluppo economico György Matolcsy. Non dico che non ci siano stati tentativi di influenzare la banca, né che tutte le nomine al Consiglio monetario siano state impeccabili. Ma dico che alla fine il risultato è stato quello di avere un’istituzione che fa le stesse politiche di prima, che l’indipendenza è stata salvaguardata e che la banca sta operando ragionevolmente bene, senza congelare l’economia con tassi d’interesse eccessivamente alti. Per certi aspetti sarebbe stato utile poter riunificare la Banca Nazionale con l’Autorità di supervisione finanziaria, ma su questo la Bce si è opposta. Ed è meglio non mettersi a discutere con loro, dal momento che l’Ungheria ha bisogno di andare d’accordo con la Commissione europea.
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