
Tutti gli uomini del porf. Bracalone
«Non ci penso proprio». Ha risposto poco più di così Romano Prodi a Fabio Fazio che gli chiedeva se per caso tenesse le sue carte già imballate, visto che ha rischiato ogni settimana di dover abbandonare Palazzo Chigi. Dal punto di vista della permanenza al potere con margini risicatissimi, Prodi merita in effetti un dieci pieno. E il premio sughero d’oro: a galleggiare nel mare in tempesta, nessuno ormai lo batte. Naturalmente, se si giudica l’operato del suo governo avendo in mente i problemi del paese, il sughero non è nemmeno un palliativo. E i voti ai componenti del suo governo ne discendono per conseguenza. Dei due vicepremier, D’Alema è confinato alla sola politica estera, e il suo maggior vanto è la missione italiana in Libano, nella quale più di uno zampino ha però messo Palazzo Chigi, con tanto di garanzia a Hezbollah. Sul piano del potere reale, l’era Prodi vede per D’Alema un calo verticale nella capacità di contare nel mondo della banca, della finanza e dell’impresa. Rutelli se la passa peggio: la Cultura non ha messo a segno nessun clamoroso successo, e politicamente dacché non è più leader della Margherita la presa sul progetto “centro tecnocratico” caro al Corriere della Sera e ai montezemoliani è svanito come neve al sole. Insomma, Prodi è pienamente riuscito, almeno sinora, a neutralizzare le due figure più “ingombranti” di Ds e Margherita. Bersani non ha potuto candidarsi alla leadership del Pd. E le sue lenzuolate liberalizzatrici ormai vengono criticate come buchi nell’acqua (tranne che per le farmacie) anche da Corriere e Repubblica, che pure per un anno le hanno difese. Peccato: di Bersani continuiamo a pensare che meriti molto di meglio. Damiano si è dovuto prestare a tre diverse versioni del protocollo sul welfare, rispetto a quello dello scorso 23 luglio, e anche lì è stato l’uomo di Palazzo Chigi a dire come, dove e perché, ogni volta. Il suo maggior merito sono le ispezioni ai cantieri edili fuori regola, e non è poca cosa. Ma per raddrizzare il welfare compromesso da deficit permanente e servizi inadeguati ci vuol ben altro: non parliamo di meriti e capacità personali, ma di agibilità politica. La Bindi, con tutto il rispetto, è riuscita meglio nel ruolo di interidizione nel Pd che al suo dicastero: lei per prima lo ammette che siamo lontani da una vera “svolta” a favore della famiglia. Quanto a Fioroni, il maggior merito da riconoscergli è l’assunzione garantita a scalare negli anni per 140 mila precari della scuola: per chi sogna il merito, naturalmente, il diritto quesito nell’amministrazione pubblica più numerosa al mondo dopo l’esercito degli Stati Uniti non è esattamente il metro dell’avanzamento del nostro sistema formativo. E potrei continuare a lungo, invece mi limito a salvare il ministro Ferrero: non sono d’accordo con lui, ma si è battuto per gli ideali della sua parte politica con più coerenza di molti colleghi. Ed ecco i peggiori in assoluto: il ministro dell’Economia Padoa-Schioppa, che si è rivelato la delusione più cocente dell’esecutivo, coi suoi scivoloni di brama lottizzatoria (Rai e Guardia di Finanza) e la sua totale copertura di una strategia di finanza pubblica basata su maxi aggravi fiscali e tagli di spesa rinviati al futuro; poi il ministro Bianchi, inadeguato al caos dei trasporti pubblici e privati italiani. Il più astuto? Di Pietro, mister no per Autostrade-Abertis ma signorsì per altri concessionari privati. Il più bistrattato? Mastella alla Giustizia, che ha accontentato l’Anm sulla riforma dell’ordinamento ed è finito comunque indagato. L’intera compagine è una compagnia inficiata dalla necessità del capocomico: calcare la scena, a costo di cambiare repertorio ogni sera. È la grandezza di quella che un tempo fu la grande Commedia dell’Arte, elevata grazie a Prodi a sistema di governo.
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