
Per un regime chance alla svedese
Guardiamo alla Svezia di oggi, quella in cui ha vinto una coalizione di centrodestra per rivedere gli eccessi di tasse e welfare, non a quella mitologica inventata dalla sinistra italiana e continentale per giustificare sempre nuove stangate fiscali ed estensioni del perimetro dello Stato. Anche la Svezia ha trasformato un sistema previdenziale retributivo, in cui le pensioni erano proporzionali alle retribuzioni ottenute durante la vita attiva, a uno contributivo, in cui invece i trattamenti sono proporzionati all’ammontare dei contributi versati durante la vita attiva da ciascun lavoratore. Solo che la Svezia non ha commesso l’errore devastante della nostra riforma Dini, varata nel 1995 dopo il ribaltone che affossò Berlusconi per opera di un premier che si rimangiò quanto ben più rigorosamente aveva proposto, fino a pochi mesi prima, come ministro dell’Economia. La tran-sizione da un sistema all’altro in Svezia è stata prevista e realizzata nell’arco di 3 soli anni. Da noi, grazie alla riforma Dini, ci vogliono ben 18 anni, e circa 35 – trentacinque! – per i trattamenti di reversibilità. In Svezia, in quel ristretto arco di tempo, l’età minima per le pensioni di vecchiaia è salita a 67 anni, e salirà presto a 70: cioè dai 10 ai 13 in più di quelli previsti ancora oggi dalla normativa italiana. Una parte dei versamenti viene incanalata direttamente in “conti individuali” che i singoli possono affidare a un fondo pensione o gestirli come pare a loro (ma non si possono ritirare prima dell’età in cui ci si ritira). L’età della pensione può naturalmente essere anticipata ma con fortissime penalizzazioni. Punto e stop.
Da noi, le riforme Amato del 1992, Dini del ’95 e Prodi del ’96 hanno severamente colpito i giovani che avevano meno di 18 anni di contributi versati, tagliando del 35-40 per cento le loro pensioni rispetto ai soggetti “tutelati”, ma hanno anche penalizzato i pensionati in essere, poiché nei loro confronti si attua un meccanismo di recupero del potere d’acquisto assai inferiore a quello disposto per i rinnovi contrattuali di chi lavora. Col risultato che le centinaia di migliaia di trattamenti al minimo diventano sempre più risibili. Un’Italia “svedese” per davvero, non solo a chiacchiere, che rifletta in maniera seria sul continuo aumento degli anziani nella sua popolazione, dovrebbe correggere subito questi errori, non limitarsi ad abolire lo “scalone” che scatterà innalzando di tre anni i requisiti di pensionabilità al 31 dicembre 2007, come promette invece di fare il governo Prodi, appena varata la Finanziaria.
Bisogna aumentare l’età della pensione, anche se i sindacati sono contrari. Bisogna estendere da subito per tutti il meccanismo contributivo “pro-quota”, anche per coloro che invece la Dini conferma nel meccanismo retributivo: e qui la Cgil è d’accordo. Bisogna innalzare i coefficienti di calcolo delle spettanze, in modo da tenere conto dell’allungamento dell’aspettativa di vita. E occorre infine prevedere un meccanismo di rivalutazione all’inflazione dei trattamenti, più forte per gli ultra75enni e i trattamenti “al minimo”. Fuori da questo, si continuerà a rinviare il problema, e a eternare il furto di futuro inflitto ai giovani, e il furto di presente inflitto ai più anziani. E piantiamola tutti di frenare la riforma ricorrendo al facile argomento dei lavori usuranti: nella società terziaria della rivoluzione tecnologica sono grazie al cielo sempre di meno, e nessuno si sogna di non garantire a chi li svolga trattamenti equamente preferenziali.
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