Una vita da comunisti per morire democristiani. La parabola di D’Alema e Napolitano

Di Lodovico Festa
19 Ottobre 2013
Incapaci di ammettere che “abbiamo perso”, così anche i più validi tra gli eredi del nobile Pci finiranno surclassati da Prodi e Renzi. La mesta parabola dei post-comunisti riletta da un ex

Per chi come me viene da una lunga esperienza nelle file del movimento comunista (più o meno temperata da un inquieto riformismo dalla metà degli anni Settanta in poi) è un vero cruccio constatare come tanti comunisti dell’Est – non solo in Russia con una personalità così importante nel guidare la transizione come Boris Eltsin, ma anche in nazioni dove il comunismo è stato subordinazione alla potenza sovietica (così in Polonia, così nella Repubblica ceca e in diversi altri Stati) – siano riusciti a essere non solo socialdemocratici ma anche liberali ben più convinti (si consideri solo i loro rapporti di reciproco riconoscimento nei vari rispettivi Stati con partiti spesso non privi di tratti di populismo di destra) di quanto lo siano diventati i molto più colti, molto più evoluti, molto più aperti nipotini di Palmiro Togliatti.

Perché Aleksander Kwasniewski, già dirigente degli studenti comunisti polacchi in tempi assai poco commedevoli, con assassini di regime e colpi di Stato in atto, è diventato nel 1995 un presidente della Repubblica di tutti, un politico europeo, un interlocutore degli americani senza complessi, ha consentito la transizione senza traumi a una presidenza “di destra”, ha contribuito a costruire una vera autonomia nazionale a prescindere da chi è alla guida dello Stato? Perché in poche parole è stato più efficace non solo di Massimo D’Alema, pur molto più colto e abile di lui, ma persino di un uomo anche lui di grande cultura e dai grandi riconoscimenti anche internazionali come Giorgio Napolitano, che pur ha fatto scelte di rilievo nel tener insieme la Repubblica ma poi non è stato in grado di dare un esito per così dire alla polacca, di autonomia e pacificazione, alla nazione? Perché, mi chiedo, non “ci riesce” una tradizione che, accanto alla logica militare del movimento comunista internazionale (i partiti leninisti poi stalinisti nascono all’interno della Guerra civile europea e trasformano secondo una logica bellica le precedenti ispirazioni socialiste), aveva coltivato il seme dell’attenzione alla questione nazionale (sia pure subordinata alle esigenze della rivoluzione mondiale e dunque a Mosca) grazie a una personalità politica come Togliatti, certo integralmente dirigente bolscevico ma pure figlio del tragico primo Dopoguerra finito nel fascismo? Perché una storia molto più evoluta di quelle dell’Est, senza comparabili tragiche e colpevoli esperienze, dà frutti così stitici?

L’attaccamento al potere
Alla fine mi pare di poter constatare che all’Est lo stesso furore popolare abbia spinto i migliori quadri dei vari movimenti comunisti nazionali a segnare una cesura radicale con il passato, a dire esplicitamente che la loro storia era finita. Lì chi è restato in politica, ha cercato riferimenti culturali nella storia nazionale pre-comunista o nelle esperienze internazionali. Certo, poi sono rimasti legami ed esperienze, ma la storia è stata assolutamente nuova, le precedenti radici estirpate.

Invece in Italia proprio l’indubitabile “qualità” del comunismo nazionale è diventata la base per evitare una vera resa dei conti con la propria tradizione: da Walter Veltroni che dice “non ero comunista” fino anche a Napolitano che spiega come in fin dei conti (pur facendo solo qualche concessione sul proprio più lontano passato) non fosse stalinista. Non ripercorrere la storia, la scissione di Livorno, il decisivo peso del mito di Stalin, il coerente collegamento con la strategia sovietica, le rotture che non rompono mai del tutto, sino ad Achille Occhetto che proprio sull’orlo del baratro profetizza un rinascimento sovietico e chiama il Pci ”Nuovo partito comunista”. Per poi solo sotto le macerie cambiare nome però schifando il nome “socialista” che sa di tradimento degli ideali: sempre alla ricerca di un’ubriaca terza via.

Naturalmente si comprendono anche alcuni motivi psicologici ben richiamati dal più intelligente tra i postcomunisti, cioè D’Alema: la volontà di percorrere nuove vie con il proprio popolo (meglio sbagliare insieme che avere ragione da soli, dice), facendo crescere la consapevolezza del nuovo a poco a poco senza operare lacerazioni pericolose che provocassero abbandoni, disincanti, dispersioni di risorse democratiche preziose. Ahimé! Come è ben noto il medico pietoso fa la piaga cancrenosa. E così è stato. Nascondersi la realtà produce guasti irreparabili nel medio periodo. Il movimento comunista non era certo privo di tattiche propagandistiche e dissimulatorie (ancora di più quando poteva contare su apparati statali che le sostenevano), ma la sua logica e la sua analisi erano spietatamente realistiche. Logiche e analisi da “guerra” ma radicate nella (spesso spietata) realtà. Solo nella fase della decadenza brezneviana anche i quadri e i dirigenti iniziarono ad autoingannarsi preparando la propria rovina. I dirigenti comunisti italiani non riescono invece a dire alla propria base la più semplice delle verità: abbiamo perso. Avevamo obiettivi e strategie che pur differenziandosi da quelli sovietici erano inquadrati in un certo movimento della storia europea che “ha perso”.

Oltre alle questioni psicologiche (e in larga misura “più” di queste), ci sono naturalmente quelle di potere: sono i comunisti riformisti emiliani quelli che più sostengono Occhetto nella ripulsa del nome “socialista”, innanzitutto per volgari questioni di concorrenza elettorale. Se ti chiami socialista dai una carta al tuo rivale Psi nei voti municipali (e nelle cooperative e nella Cgil). Vi è poi il peso nello Stato: alla fine del 1992 le due uniche forze costituenti ancora in sella sono i postcomunisti e i dossettiani. Tutte le altre – socialisti, liberali, dc moderati – sono in liquidazione: lo Stato inizia a disgregarsi, ma le residue forze costituenti assumono una centralità decisiva nei vari gangli delle istituzioni. La possibilità di dare la patente di “costituzionale” o meno diventa un elemento decisivo per mantenere il proprio potere: e non per nulla Napolitano, che pur nella sua rilevante anomalia (a un certo punto viene anche “emarginato” dal Pds) mantiene evidenti tratti di continuità, appare come l’ultimo anello con il Patto costituente del 1947.

Questa storia di spericolato attaccamento al potere non è però una storia a lieto fine: per quello che riguarda il partito la mancanza di verità ha man mano logorato i pur capaci quadri dell’ex Pci. Pochi mesi e un erede della tradizione dossettiana (e molto anche dei boy scout), Matteo Renzi, peraltro un vispissimo furbetto, non certo una personalità trascendentale, s’impossesserà della “macchina”; nel cercare di guidare il governo il povero Pier Luigi Bersani ha fatto la figura del peracottaro ed è stato sconfitto da un andreattiano figlio dell’Azione cattolica. Gli ex Pci si sono incistati nello Stato ma questo è diventato una schifezza percorsa da poteri anomali come quelli della magistratura combattente e da influenze innanzitutto internazionali. Gli ex Pci hanno quasi conquistato, poi, il monopolio della politica, ma questa con la crisi dello Stato si è svuotata, e il flusso degli indirizzi nazionali passa attraverso l’orientamento dell’opinione pubblica, non più attraverso partiti e Parlamento, con la Repubblica che batte dieci a uno gli ex Pci in termini di influenza popolare.

Un Prof verso il Colle
A forza di nascondere (e spesso nascondersi) la realtà, finirà che anche il loro esponente di maggiore qualità, Napolitano – anche perché quando uno di loro, pur responsabile di seri guasti ma coraggioso, come Luciano Violante ha detto un po’ di verità, è stato preso a secchiate d’acqua in testa – verrà superato da un Romano Prodi che si appresta ad andare al Quirinale e far lui – davvero – la pacificazione (o almeno a tentare di farla davvero: cosa che non è riuscita all’attuale inquilino del Colle).

Alla fine resterà in piedi solo la tradizione dossettiana, con le sue semplificazioni, gli integralismi, gli eccessi di statalismo, ma capace di raccontare e raccordarsi a una verità, tra l’altro, poi, proprio per certe sue astrattezze adatta anche a dialogare con un certo ritorno azionistico che influisce sugli ambienti elitari volti a sinistra. Non solo verrà seppellita la concretezza riformista del più antico e nobile socialismo, ma anche il nocciolo realistico del comunismo, tradotto da un certo crocianesimo in una interessante versione italiana, verrà disperso perché tradito da uno storicismo che nell’ultimo giro è stato incapace di esaminare se stesso.

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