La preghiera del mattino

“Sistemeranno” l’Europa come hanno “sistemato” Libia e Afghanistan?

Talebani a guardia dell’ambasciata dell’Iran a Kabul, Afghanistan
Talebani a guardia dell’ambasciata dell’Iran a Kabul, Afghanistan (foto Ansa)

Sul Sussidiario Giulio Sapelli scrive: «Il nazionalismo grande-russo putiniano ha colto l’occasione ucraina per scaricare all’esterno della Russia le sue crescenti contraddizioni. In primis quella della crisi demografica in una nazione immensa circondata da avversari, se non da nemici. Una crisi accompagnata da un sottosviluppo economico che sconta oggi tutta la depredazione neoliberista consentita dal dominio eltsiniano guidato dai Chicago Boys à la Jeffrey Sachs e che ha ridotto la Russia a una nazione che esporta materie prime agricole e minerarie, mentre continua, però, a detenere una delle chiavi del conflitto termonucleare mondiale. La crisi interna di un potere policefalo che, nell’autocrazia, non riesce più ad agglutinarsi, si riversa, con l’aggressione all’Ucraina, all’esterno. Si infrange sulle frontiere degli Stati aderenti alla Nato e di quelli aderenti all’Ue. Non sono la stessa cosa e proprio questo, a differenza di ciò che comunemente si crede, impedisce all’Europa, come insieme di Stati legati da trattati, di potersi sottrarre alla necessità, per l’equilibrio e la pace, di sviluppare quella politica di potenza unitaria continentale che le differenze nazionali rendono sino a oggi impossibile».

Le prospettive di una trattativa per uscire dalla crisi ucraina appaiono sempre più complesse. È dunque utile avere presente di chi è la responsabilità principale, cioè l’aggressore russo, ma anche qual è l’unica via di uscita non catastrofica: creare un’Europa legata da trattati che garantiscano la sicurezza di tutti gli Stati del continente.

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Su Scenari economici Guido da Landriano scrive: «Basta l’immagine soprastante per misurare in modo tangibile quanto non conti nulla, per incapacità propria e dei predecessori, la politica italiana. Luigi Di Maio, il giovine statista alla guida di un ministero chiave del governo italiano, e una società privata minimamente partecipata, che comunque si prende in carico la fornitura del gas al nostro paese. Di Maio solidamente afferma che NON si pagherà in rubli, mostrando la sua virile tempra di uomo politico mediterraneo. Un’ora dopo Eni afferma di essere pronta ad aprire il conto in rubli presso Gazprombank, la notizia è confermata».

Per cercare una via di uscita alla crisi ucraina che faccia pagare, nella misura del possibile, le sue responsabilità a Mosca ma che non crei una situazione tipo grande Libia nel cuore dell’Europa, bisogna spiegare a giornalisti e opinionisti con l’elmetto che devono fare i conti con la realtà.

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Su Huffington Post Italia Angela Mauro scrive: «Nel giorno in cui Mosca taglia il gas a Polonia e Bulgaria, Gazprom spiffera agli europei che sono ben 10 le aziende di Stati Ue che stanno pagando il gas russo in rubli, come chiede il decreto di Putin. Doppio scacco per la Russia che getta scompiglio a Bruxelles. Primo perché, dalle informazioni che abbiamo a disposizione, sembrerebbe che in Commissione Ue non sapessero del “tradimento” da parte di alcuni Stati membri: molti sospetti sono sulla Germania e sull’Austria, che però smentiscono, e sull’Ungheria, dove Orbán continua a sfoggiare la sua vicinanza a Putin».

La realtà è la realtà è la realtà.

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Su Huffington Post Italia Mariano Giustino scrive: «Mentre la guerra di invasione della Russia in Ucraina entra in una fase decisiva e ancor più drammatica, Ankara approfitta della distrazione della comunità internazionale per lanciare una nuova operazione al cuore del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) in Nord Iraq. Forse non è un caso che solo due giorni dopo si sia registrato un attentato a un autobus che trasportava agenti carcerari nella città della Turchia occidentale di Bursa».

Chi pensa che la soluzione finale della crisi che si è aperta con l’aggressione di Mosca all’Ucraina sia la disgregazione della Russia, dovrebbe dare un’occhiata a che cosa succede nel mondo.

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Su Fanpage Davide Falcioni scrive: «Alcune centinaia di veicoli militari provenienti dall’ovest della Libia – in particolare dalle città di Misurata, Zintan, al Zawiya – si sono diretti verso la capitale Tripoli. Lo rende noto il quotidiano panarabo di proprietà saudita Al Arabiya, specificando che si tratta di milizie affiliate al premier Abdulhamid Dabaiba, il quale non sembra affatto intenzionato a cedere il potere al primo ministro incaricato dal parlamento di Tobruk, Fathi Bashagha. Diverse fonti stampa riferiscono della preoccupazione generale che si verifichino scontri armati tra le milizie dei due governi. Nei giorni scorsi, Bashagha aveva ricevuto nella sua residenza di Tunisi diversi leader militari di Misurata».

Riflettere su come gli americani abbiano “sistemato” la Libia, dovrebbe aiutarci a capire come non si debba “sistemare” l’Europa.

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Su Startmag Giuseppe Gagliano scrive: «Una settimana prima, probabilmente per “preparare” meglio questo incontro collegiale, i ministri degli Esteri cinese e russo si erano recati a Kabul per colloqui con il loro omologo talebano, Khan Muttaqi. Il capo della diplomazia di Pechino ha avanzato, tra le altre strade, l’idea di associare il territorio afghano al corridoio economico Cina-Pakistan (Cpec) con lo scopo di rafforzare la Nuova Via della seta. Durante questi due giorni di incontri e scambi ufficialmente dedicati alle sorti dell’Afghanistan e ai mezzi collettivi per accompagnare il suo reinserimento nel concerto delle nazioni, rappresentanti speciali di Cina, Russia, Pakistan ma anche Stati Uniti hanno avuto un appuntamento per una sessione di lavoro della Troika plus (o Troika estesa). È facile immaginare quanto si sia sentita sola la delegazione americana all’interno di questo collettivo che non è sensibile agli interessi della lontana America. In questo forum ad hoc, il capo della diplomazia cinese ha invitato Washington a porre fine alle varie sanzioni applicate al regime talebano afghano e a liberare l’accesso ai fondi congelati negli Stati Uniti».

Anche riflettere su come gli americani abbiano “sistemato” l’Afghanistan, dovrebbe aiutarci a capire come non vada “sistemata” l’Europa.

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Su Dagospia si cita questa frase: «Intanto Pyongyang ha aumentato i test sui missili balistici negli ultimi mesi e minaccia di riprendere i test nucleari. La Corea del Nord aveva sospeso i suoi test nucleari e missilistici a lungo raggio quando Kim Jong Un e l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump avevano avviato colloqui, poi falliti nel 2019. Da allora i negoziati sono in stallo. La Corea del Nord celebra questo mese il 110° anniversario della nascita del suo fondatore, Kim Il Sung, nonno dell’attuale leader. Pyongyang ama celebrare ricorrenze importanti con parate militari, importanti test di armi o lanci di satelliti».

Chi esclude una guerra nucleare dovrebbe tener conto di come un mondo senza equilibri internazionali definiti possa, per così dire, sfuggire di mano.

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Su Formiche Emanuele Rossi scrive: «Nei giorni scorsi, il dipartimento di Stato ha reso pubblico un report in cui valuta l’Iran sulla corsa all’arricchimento e prende in considerazione la possibilità che alcune aliquote di materiale fissile arricchito (e alcune centrali e centri operativi) siano nascosti e “non dichiarati” – anche perché attualmente, per ritorsione, Teheran non permette ai tecnici dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica di effettuare controlli nel paese».

Ecco un altro angolo del Pianeta da tener bene d’occhio per capire quanto impossibili catastrofi nucleari possano diventare meno impossibili.

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Sulla Nuova Bussola quotidiana Wlodzimierz Redzioch intervista l’ambasciatore armeno presso la Santa Sede, Garen Nazarian, che dice: «Prima di tutto, vorrei dire che la situazione nella regione è ancora molto tesa. Ci sono possibili rischi di nuovi scontri militari in Nagorno-Karabakh e al confine tra Armenia e Azerbaigian. È necessario adottare misure urgenti per non permettere una nuova escalation militare e pulizia etnica. Sfortunatamente, la parte azera, cerca giustificazioni inventate per preparare il terreno a nuove provocazioni nel Nagorno-Karabakh e per accusare l’Armenia di azioni distruttive».

Ecco ancora un altro angolo del Pianeta che aiuta a capire come l’obiettivo di “disgregare la Russia senza se e senza ma” possa portare a diffuse, incontrollabili e tragiche crisi. E basta considerare i comportamenti di uno Stato per necessità “realista” come quello israeliano per comprendere quali siano i pericoli oggi per “tutto” il mondo e quali le soluzioni possibili.

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Su Dagospia si cita un articolo di Lucio Caracciolo sul sito della Stampa nel quale si scrive: «Siamo in guerra. Ma per quale vittoria? E se non lo sappiamo, come potremo stabilire se avremo vinto o perso, quando mai finirà? Dopo due mesi di massacri, sarebbe utile provare a rispondere a queste domande. Il fatto che si tenda a evitarle rivela le ambiguità che segnano il nostro modo di affrontare questo conflitto. È infatti guerra strana la nostra, tanto è tragica la macelleria in Ucraina».

È difficile non concordare con Caracciolo quando si chiede: ma che cosa vogliamo? Che tipo di “vittoria” cerchiamo?

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