
Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo il contributo firmato da Antonello Venditti per il volume Dilexit Ecclesiam. Servitore della comunione. Scritti in onore di Mons. Massimo Camisasca in occasione del suo 75° genetliaco (Marcianum Press, 564 pagine, 28 euro), raccolta di “auguri” che personalità di tutti i campi, dalla Chiesa alla politica fino allo sport, hanno voluto rivolgere al vescovo di Reggio Emilia-Guastalla e fondatore della Fraternità San Carlo (qui la nostra presentazione).
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Ho conosciuto don Massimo nei primi anni Ottanta. Credo che me lo fece incontrare uno dei miei primi impresari, Libero Venturi. Don Massimo aveva chiesto di incontrarmi probabilmente perché aveva visto in me una capacità particolare di incontrare persone che vivevano dei disagi, a scuola, negli ospedali, nelle carceri. Dove c’era il disagio io ero presente, forse perché io stesso avevo vissuto un’infanzia disagiata, non economicamente, ma a causa del rapporto con i miei genitori. La mia famiglia era oppressiva. Ero attraversato da una profonda solitudine. A 15 anni pesavo quasi un quintale ed ero “bullizzato” dai miei coetanei. La musica divenne la strada della mia espressione. Attraverso il pianoforte e le mie canzoni tutto il disagio che stavo vivendo mi aprì le porte della conoscenza e dell’espressione del mistero che si nasconde nel cuore degli uomini. Da questo punto di vista, tutte le mie canzoni sono autobiografiche. Esse sono anche una forma di preghiera. La musica, infatti, è preghiera, un incontro con gli altri e con te stesso.
Credo che don Massimo si accorse di tutto questo, delle mie problematiche e della mia capacità di attraversarle trasformandole in musica. Aveva tentato di organizzare un mio concerto davanti a Giovanni Paolo II, che poi non si fece… Mi portava spesso a cena da famiglie per me sconosciute dove si discuteva delle sfide che stavano affrontando con i loro figli speciali o con altri aspetti della vita familiare. Senza che io me ne accorgessi e con grande semplicità, don Massimo mi fece entrare in un mondo nuovo, sconosciuto, ma che era già in qualche modo presente dentro di me.
Io e lui abbiamo tanti piccoli segreti. Ricordo vagamente di una volta in cui non volevo uscire sul palco per un concerto all’Olimpico se prima non avessi parlato con lui. Così, mentre lo stadio era già pieno e attendeva trepidante l’inizio del concerto, hanno dovuto telefonare a don Massimo per pregarlo di precipitarsi da me.
Il nostro rapporto è molto misterioso, difficile da descrivere a parole. Siamo complementari: l’uno cerca l’altro per confortarsi nella grandezza.
All’inizio mi era stato presentato come un’“eminenza grigia” di Comunione e Liberazione, per cui la mia aspettativa nell’incontrarlo era tutt’altro che positiva. All’epoca Cl rappresentava una rivoluzione nel modo di concepire la fede ed era molto osteggiata. Ma essendo un tipo curioso, non mi fermai all’“eminenza grigia” e lo volli conoscere personalmente. Quando lo incontrai non vidi nulla del grigio e del nero che mi avevano prefigurato. Vidi invece il bianco, una grande luce… Trovai una persona con una profonda intelligenza, una grande cultura e una non comune sensibilità. La luce che mi ha attraversato fin dal nostro primo incontro è stata l’inizio di un’amicizia che non è più finita. Abbiamo vissuto tanti momenti di grazia assieme. O meglio, momenti di condivisione della grazia, che è un fardello enorme.
Ci siamo frequentati per tutti gli anni Ottanta e Novanta. Quando lui fondò la Fraternità San Carlo Borromeo, spesso mi faceva incontrare i suoi seminaristi e i suoi preti. Mi sembrava di essere per lui come una cartina di tornasole per testare l’animo dei suoi “discepoli”. Alcune volte, quando doveva decidere se accettare o meno un ragazzo nella comunità, lo portava da me. Io sono un “cacciatore”, ho un dono speciale dal Signore che mi consente di intuire subito se sono di fronte ad una persona che finge. Così, quando la mia “voce interiore” me ne rendeva certo, consigliavo a don Massimo di lasciar perdere con quella persona… Ricordo tante cene, a casa mia o da lui, in cui ascoltavamo la musica e chiacchieravamo. Attraverso la mia musica, don Massimo riusciva a cogliere sfumature del mio animo, ma anche dell’animo dei ragazzi che lo accompagnavano.
Quando andavo a trovarlo nella casa madre della Fraternità, sapevo di essere completamente nelle mani di Dio e accettavo perfino di andare a Messa come se fosse la cosa più naturale del mondo. In uno di questi incontri alla sede della Fraternità, durante una cena, mi si è aperto un mondo: don Massimo mi aveva fatto incontrare dei ragazzi che sarebbero stati ordinati preti il giorno successivo e sarebbero partiti in missione, ognuno in un luogo diverso e ognuno con la propria “squadra”. Ricordo che quella sera si mangiava, si beveva, si godeva delle cose più ordinarie della vita. Tutto era vissuto con grande gioia. Eppure la loro vita stava per cambiare totalmente. Lo straordinario sembrava normale… Non mi stupisce, anzi mi riempie di orgoglio, che le parole di una mia canzone – «in questo mondo di ladri, c’è ancora un gruppo di amici che non si arrendono mai…» – siano state avvertite come scritte apposta per loro.
In una di queste cene ricordo di aver incontrato anche un interessantissimo mondo femminile: delle suore legate alla Fraternità che a me sono apparse come la necessaria retroguardia che permetteva ai sacerdoti di andare in trincea. Fu un altro gran bello spaccato di vita che mi fece capire molte cose. D’altra parte sono sempre stato un sostenitore della valorizzazione delle donne nella vita della Chiesa. Senza le suore non si andrebbe avanti: la Chiesa ha bisogno di loro.
Un altro bel ricordo legato a don Massimo è l’amore che mi trasmise per l’Atalanta. Lui aveva un rapporto speciale con Bergamo e non era ancora diventato cappellano del Milan. Abbiamo visto tutta la Coppa Uefa dell’Atalanta a casa mia. Ha avuto la capacità di farmi amare una città e una squadra diverse dalla Roma! Forse è anche per questo che, quando penso a tutte le vittime che la pandemia ha mietuto a Bergamo, mi si apre il cuore.
Don Massimo ha conosciuto un mare di gente, persone appartenenti ai mondi più disparati. Gli facevo spesso domande assurde: sulla genetica, sulla cremazione, sul trapianto degli organi in relazione alla resurrezione della carne. Domande apparentemente stupide, ma che lui prendeva sempre con molta serietà e che aprivano interessanti dibattiti. Lo “usavo” per chiarire tanti dubbi che avevo nel cuore, come un “sacerdote di campagna” e lui aveva una personalità così grande che sapeva accogliere anche domande piccole come le mie e soprattutto sapeva come rispondere in modo semplice e ad ogni tipo di persona.
Sono convinto che persone dalla statura così grande abbiano bisogno di stare in mezzo alla gente, di tornare ad un sacerdozio “sul campo”. È questa la loro vocazione. Toglierli alla gente – come quando un prefetto diventa deputato – è ingiusto e anche sbagliato.
Per me don Massimo è tutto questo: è Bergamo, è la Fraternità, è il simbolo dell’amicizia, del superamento delle barriere e delle culture, della capacità di parlare a tutti.
Il mio augurio, al termine di queste brevi righe, è di poterlo presto rivedere. Spero che l’occasione di questo libro apra la strada a nuovi incontri e momenti importanti da vivere assieme.
Foto Venditti: Ansa
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