
Viva Erode? Ancora non sei nato e già ti dan per morto
È il 2 febbraio quando Repubblica pubblica un articolo: “Fermiamo le cure intensive per i neonati troppo prematuri”. «È giusto far sopravvivere prematuri di 22-23 settimane – scrive la giornalista Maria Cristina Carratù – destinati comunque a morire, o a sopravvivere con handicap gravissimi? No, dicono, unanimi, tutti gli organismi più rappresentativi del settore (.), chiamati a raccolta dalla Clinica di medicina perinatale dell’Università di Firenze diretta da Giampaolo Donzelli, e da quella di ostetricia e ginecologia di Gianfranco Scarselli». La notizia è ripresa dall’Ansa cui Donzelli anticipa la presentazione di un documento sul tema «che si fonda su base scientifica e provata e su due considerazioni: la prima è che sta scritto biblicamente, antropologicamente e geneticamente che il figlio dell’uomo resta nell’utero della madre per 40 settimane, la seconda è che la donna non dà solo alla luce un figlio, ma un cittadino». Il 6 febbraio un’altra agenzia chiosa la tesi della Società Italiana di Neonatologia (Sin): «Per la vita umana occorre che il nascituro arrivi alla 24esima settimana di gestazione che è il limite di vitalità indispensabile: sotto tale limite la sopravvivenza è pari a zero, nonostante interventi e cure intensive che, qualora praticate, sono accanimento». Il 18 febbraio viene presentato all’Istituto degli Innocenti di Firenze il documento “Raccomandazioni per le cure prenatali nelle età gestazionali estremamente basse”. Le agenzie riportano le constatazioni di Mauro Barni, vicepresidente della Commissione nazionale di bioetica: «Il neonato ha il diritto a nascere sano o, in particolari casi sotto il limite di vitalità della 24esima settimana di gestazione, a non nascere: la decisione spetta solo al medico, i genitori non sono padroni della vita del nuovo nato». Il 23 febbraio su Avvenire: «Il Comitato toscano di bioetica e l’Ordine regionale dei medici chiedono lo stop alle terapie intensive per i bimbi nati prima delle 21-22 settimane, a rischio di disabilità». 21-22 settimane?
La FANTASCIENZA DI largo fochetti
Per capire perché Repubblica oggi tace sulla vicenda, cosa dica il documento e quali siano le firme di «tutti gli organismi più rappresentativi del settore» torniamo a quel famoso 2 febbraio in cui l’articolo della Carratù instaura una reazione a catena. Iniziano due raccolte-firme, una Lettera aperta dei Neonatologi e una Lettera delle Associazioni dei Genitori: il bailamme sull’accanimento terapeutico non sottende piuttosto la rinuncia a salvare un possibile e temuto figlio handicappato?
L’8 febbraio il neonatologo di Trento Dino Pedrotti provoca sul Riformista: «È facile ragionare in modo freddo come in Olanda, dove si vogliono avere la migliori garanzie di qualità del prodotto, eliminando anche i neonati di 24 e 25 settimane. È lo stesso freddo criterio per cui a Groningen si pratica l’eutanasia ai neonati malformati». Il 17 febbraio Franco Bagnoli, presidente della Sezione regionale Sin Toscana, a nome di tutto il direttivo, indirizza una lettera al professor Gianpaolo Donzelli e a tutti i presidenti di «tutti gli organismi più rappresentativi del settore». Gli errori della Carratù sono troppi e Bagnoli ritiene «probabile che anche quanto riportato nell’articolo non corrisponda strettamente allo spirito del documento. Siamo sicuri che l’interpretazione data dalla giornalista Carratù non corrisponde alla realtà e sollecitiamo la Società Italiana di Pediatria, la Società Italiana di Neonatologia, la Società Italiana di Medicina Perinatale, la Società Italiana di Ginecologia ed Ostetricia, la Federazione dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, la Commissione Nazionale di Bioetica a prendere in attenta considerazione quanto esposto».
Gli errori riguardano il numero dei nati prematuri su 600 mila nascite, numero dei decessi, numero di quelli che vanno in Terapia Intensiva Neonatale, numero dei sopravvissuti. Dall’articolo si evince che il nato di 23 settimane deve comunque essere abbandonato a se stesso, anche se mostra parametri vitali e per il nato di 24 settimane non è chiaro quali siano le attività rianimatorie da attuare. Tutti concetti che si sovrappongono ai dati della letteratura secondo i quali attualmente il 50 per cento dei nati di età gestazionale pari a 23 settimane sopravvive. Quanto attualmente sostenuto per il nato di 22-23 settimane, era inoltre sostenuto 15 anni fa per i nati di 25-26 settimane, o per altre condizioni malformative. Pochi anni dopo le posizioni andarono riviste, per due motivi: non tutti i neonati, oggetto di cure compassionevoli o di accompagnamento dolce verso il decesso, morivano. E molti dei sopravvissuti presentavano disabilità ed handicap più gravi che se fossero stati sottoposti a terapia intensiva. Se è poi vero che più ci scostiamo dai parametri della normalità più aumenta il rischio di incorrere in eventi patologici, è altrettanto vero che la salute non si valuta solo con le misure convenzionali.
HANNO CREATO UN FINTO PROBLEMA
Quando nasce un bambino di età gestazionale (e.g.) sotto le 22-23 settimane non è riducibile a parametri come “venti centimetri” o “380 grammi di peso”. È un individuo che ha superato metà della propria esistenza intrauterina: pertanto il suo “essere” è frutto non solo di crescita (peso, lunghezza, circonferenza cranica, ecc.), ma di sviluppo. E a considerare tutti i fattori (ambientali, materni, utero-placentari, fetali) che influenzano ogni crescita e ogni sviluppo, qualsiasi generalizzazione risulta eticamente non accettabile, né biologicamente corretta.
Dove finisce l’informazione scorretta di Rep. e inizia la discutibilità del documento presentato a Firenze? Il professor Firmino Rubaltelli, direttore della divisione di Neonatologia e Terapia intensiva neonatale del Careggi di Firenze, chiarisce a Tempi che «si può parlare di accanimento terapeutico quando la prospettiva di vita è di qualche ora indipendentemente dalle cure intensive. Chi vive accanto a questi bambini sa che ve ne sono alcuni che rinunciano a lottare indipendentemente dalle cure fornite. Vi sono invece piccolissimi, spesso di 23 settimane, che dimostrano chiaramente a chi ha occhi per osservarli il loro attaccamento alla vita, e chiedono di essere aiutati». Basterebbe, per ovviare a questo discorso sull’accanimento «che tutte le gravidanze a rischio fossero concentrate in pochissimi ospedali dotati dell’expertise e delle risorse per assistere i neonati di bassissimo peso alla nascita. Penso a non più di 1 o 2 ospedali per regione: tutti i neonatologi più esperti concordano che non è la sala parto il luogo adatto per decidere della vita di un neonato pretermine». Concorde il professor Pedrotti che testimonia a Tempi: «In certe zone d’Italia può andar bene iniziare a rianimare bambini reattivi di 23 settimane, ma in certe realtà si dovrebbe sì spostare di una settimana questo limite. Non fisserei uno standard “nazionale”».
«Pensare che limitare la rianimazione alla nascita dei neonati di 23-24 settimane risolva i problema dell’handicap è una semplificazione ingenua – ribadisce Rubaltelli -. Recenti casistiche mostrano come circa il 40 per cento dei nati a 23 settimane di gravidanza sopravvive. Sospendere le cure per modesti ritardi intellettuali e motori futuri obbligherebbe a comportarsi nella stessa maniera con neonati con la sindrome di Down, cosa inconcepibile sia dal punto di vista etico che di legge». «In varie regioni – prosegue – esiste un proggetto nazionale, l’Action, che sta valutando da 2 anni tutti i bambini nati sotto le 32 settimane. I risultati riscontrati in Toscana e che saranno di dominio pubblico tra qualche mese, mostrano che la situazione è molto diversa da quella che viene “spacciata”: sono simili a quelli della Norvegia dove il 40 per cento dei 23 settimane sopravvive, per il 90-80 per cento con una buona prognosi. Chi è contro questa assistenza pecca in due modi: si rifà a studi pluridatati e lo fa senza lavorare sul campo. Ora che i dati vengono raccolti, rielaborati, valutati e mandati alle riviste passano anni e si finisce, come oggi, a citare dati vecchi di 15 anni, di bambini nati 15 anni fa con un’assistenza di 15 anni fa: all’epoca, nemmeno in Francia venivi rianimato. Oggi esistono addirittura studiosi che per i bambini di 21 e 22 settimane stanno già pensando alla realizzazione di un utero artificiale. Macchinario che permetterebbe di farli sopravvivere quelle 2 o 3 settimane indispensabili per essere curati con metodi tradizionali. In base a questi, potrebbe benissimo darsi che tra 10 anni si salvino anche dei feti che ora non sono vitali».
La storia della Perinatologia e Neonatologia degli ultimi 30 anni ha inoltre insegnato che la riduzione dei tassi di mortalità si è sempre accompagnata ad un miglioramento della qualità della sopravvivenza, in quanto questi dati sono strettamente correlati al miglioramento delle condizioni della popolazione ed alla qualità delle cure erogate. È ovvio che quando morivano il 97 per cento dei nati di peso inferiore a 600 grammi quasi tutti i pochi sopravvissuti (3 per cento) presentassero gravi disabilità.
POCHI, SOLI E IN ERRORE:
sono I PROMOTORI DEL DOCUMENTO
Secondo quali criteri allora «tutti gli organismi più rappresentativi del settore» concordano nel non rianimare il neonato di 22 settimane e 6 giorni ed invece rianimare quello di appena un giorno più anziano, quando tutti i neonatologi sono concordi che una valutazione anche attenta dell’età gestazionale può comportare variazioni pari a più o meno a 10 giorni?
Il professore Antonio Boldrini, neonatologo di Pisa e vicepresidente della Sezione Regionale Sin Toscana chiarisce per Tempi che se l’articolo di Rep. corrisponde al reale spirito del documento gli «organismi più rappresentativi del settore» non si trovano né unanimi né d’accordo «sui contenuti, e sul metodo: non si capisce come dei colleghi possano mettersi attorno un tavolo, formulare un documento e farlo passare come “linee guida fondamentali”, senza che esso venga discusso in assemblea, presenti tutti, e sottolineo tutti, i soggetti di neonatologia, perinatologia, ginecologia». Le generalizzazioni lasciano Boldrini perplesso, «la mia casistica di un quinquennio riporta un dato del 35 per cento di sopravvivenza per prematuri con e.g. di 23/24 settimane, ma gioca su numeri esigui. Non mi addentrerei in discorsi che riducono un bambino nato a una percentuale». Quando gli accennarono all’esistenza del documento, Boldrini scrisse in una nota polemica: «A nome di Giorgia, bambina di 23 settimane – che oggi ha 6 anni e sta benissimo anche da un punto di vista neuro-motorio – e a nome di tutti quei neonati nati sotto alle 28 settimane per i quali, fino a qualche anno fa, i “sacri testi” suggerivano di non iniziare alcuna attività rianimatoria per evitare che nei sopravvissuti potessero comparire handicap più o meno gravi, a nome di tutti questi, io dissento totalmente dallo spirito di questo documento». Oggi, Boldrini che non parla a nome di un comitato, ritiene «che quella esigenza di perfezione che ci ha donati il Padreterno sia oramai ridotta a perversione di hitleriana memoria. Nei secoli l’esigenza di essere “perfetti” si è sviluppata con dei canoni un tempo recente “ariani” ora, più genericamente, di “beautiful”, ma sempre dietro l’angolo la tentazione dell’eutanasia che punta a sopprimere con la persona anche il problema. Ritengo la vita un bene supremo ma non un valore assoluto, per cui sono sicuramente disponibile a interrompere l’intervento quando divento consapevole della sua inutilità. Ma a 23 settimane il problema non c’è, diventa soppressione preventiva della possibilità di riportare handicap. In nome della “qualità della vita”: ma chi decide della qualità della vita? Cos’è un essere concepito da due esseri umani se non un altro essere umano, che in questo caso chiede di essere aiutato?». Boldrini ama ripetere che il giorno in cui nascerà un gatto da due esseri umani, cambierà completamente modo di pensare. «Ma finché nasce un essere umano, anche simile a un quadro di Picasso, non straccio la tela per il solo fatto di non capirla: questa non è eutanasia, è ipocrisia». Boldrini non crede sia un caso «che all’avvicinarsi di una votazione si tiri sempre fuori una questione bioetica. Questioni però che mettono in crisi qualunque partito, lo ha dimostrato il referendum sulla legge 40». Allora i pochi ma potenti visir dell’informazione fecero la loro per cambiare la legge sulla procreazione assistita. E il 75 per cento del popolo stroncò ogni trionfalismo. «è impressionante nel dibattito sollevato dalla stampa – afferma Carlo Bellieni, neonatologo a Siena – la concordanza di giudizio di tantissimi colleghi: nessuno ha intenzione di accanirsi a rianimare un paziente se non ci sono possibilità reali che risponda al trattamento, ma ogni bambino ha diritto di essere curato se c’è una speranza. Che a 23 settimane c’è». Bellieni condanna una deriva nella medicina occidentale verso l’idea che esista una vita non degna di essere vissuta: «In Francia i tutori di un disabile hanno denunciato per suo conto i medici che non avevano scoperto la disabilità prima della nascita: se lo avessero fatto i genitori avrebbero abortito. Nascere, sostengono, è stato ingiusto per lui. Fortunatamente la capacità di raziocinio ci dice che alla disabilità si risponde con l’appello a mettere chi è malato al primo posto nei programmi di governo, con la cura e la solidarietà. E che alla handiphobie, come è chiamata in Francia, si risponde con la realtà reale che fa meno paura di quella immaginata: tanti disabili ce lo mostrano. Il nostro compito è non lasciarli soli».
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