
Volete affascinare i giovani? Siate elementari nella comunicazione

Caro direttore, nella mia precedente lettera, ti avevo espresso la preoccupazione che gli “esperti” del prossimo Sinodo sui giovani perdessero tempo nel cercare a tavolino un nuovo ed appropriato “linguaggio” per poter parlare ai giovani di oggi e, in particolare, per annunciare loro il Vangelo di Gesù, dimenticando la grande tradizione della vita della Chiesa e non accorgendosi del fatto che il Servo di Dio don Luigi Giussani, solo qualche decennio fa, era riuscito a parlare ai giovani, innanzi tutto credendo in modo certo e lieto a Gesù e poi individuando un “metodo” che rischia di essere dimenticato. Il secondo punto di tale metodo veniva individuato dallo stesso don Giussani nell’espressione “ELEMENTARE NELLA COMUNICAZIONE”. Il richiamo cristiano deve essere elementare nella comunicazione. Mi sembra una sottolineatura molto importante in un’epoca di confusione in cui si pensa di trovare chissà quale complicato meccanismo per poter parlare ai giovani. Don Giussani dice che basta essere elementari.
Don Giussani stesso spiega che cosa ciò significhi e scrive: «È attraverso noi che Cristo si ripropone agli uomini; sono il nostro atteggiamento e la nostra parola che costituiscono il richiamo attraverso cui gli altri possono conoscerlo. Perché tale richiamo possa essere rivolto a “tutti”, deve essere elementare nella comunicazione, cioè semplice». La semplicità consiste nell’essere “essenziali”, eliminando fatiche non necessarie. In questo senso, il richiamo deve essere «preciso negli elementi sostanziali e libero di fronte a qualsiasi situazione». Da grande educatore quale era, don Giussani ha indicato anche le condizioni per essere elementari, individuate nella libertà, nell’azione e nella concretezza.
Circa la prima fondamentale condizione, don Giussani scrive che «è alla persona singola e inconfondibile che il richiamo cristiano si rivolge. Più precisamente, è alla sua libertà che esso si propone» e più avanti precisa che «per rivolgerci genuinamente alla libertà altrui, occorre agire in libertà noi… il Cristianesimo è quindi incontro di due libertà, è riferimento di una persona ad altra persona». Ancora una volta, don Giussani sottolinea che per annunciare Cristo occorre coinvolgersi con l’altro, donandogli condivisione e parole. Non bastano omelie anche belle e richiami morali: occorre mettere in gioco la propria libertà con la persona dell’altro, il che, evidentemente costa spesso fatica e sacrificio.
Per quanto riguarda l’azione, don Giussani scrive: «Dopo che una persona è stata posta di fronte al richiamo, all’alternativa dell’accettare o no, e quindi sollecitata nella sua libertà, si pone il problema di continuare una sua iniziale adesione. Cioè: se io capisco che una cosa è giusta, come posso continuare a volerla? Risposta: impegnandomi, cioè “facendo” la realtà che vedo giusta… il mezzo della continuità è quindi il “fare”», con la precisazione che qualsiasi fare impegna tutta la persona. Infatti, «il fare è la continua creazione della nostra libertà», perché «le idee non educano se non sono colte nella esperienza di una vita; perciò il rapporto educativo è quello di una “esperienza insieme”». A conferma che ogni impegno educativo non può prescindere dalla condivisione dei problemi concreti dell’altro.
Quest’ultimo aspetto viene analiticamente approfondito, affrontando il tema della “concretezza”, circa il quale si legge che «la carità del nostro richiamo deve riferirsi alla situazione dell’altro», sia sotto l’aspetto della posizione psicologica che sotto l’aspetto della posizione nell’ambiente in cui l’altro vive. E sotto questo profilo don Giussani conclude le sue osservazioni con queste parole: «Caratteristica ultima del richiamo, proprio perché vero, è che sia risposta a “tutto”. Questo “tutto” trova la sua più vasta, anche se contingente, espressione nell’ambiente. È nel suo ambiente che la persona deve trovare il richiamo, e sperimentarlo come unica risposta totale».
Caro direttore, penso che gli “esperti” dovrebbero imparare da don Giussani, nell’affrontare il tema dei giovani, molte cose. Innanzi tutto, la semplicità della comunicazione, anche per essere in sintonia con il Vangelo che invita ad usare parole chiare (sì, sì – no, no), avendo fiducia che il cuore dei giovani capisce molto di più di molti adulti. Poi, la condivisione dell’altro in tutti i suoi bisogni: senza questa condivisione, anche la parola più giusta rischia di rimanere astratta. Poi, proporre ai giovani un impegno che metta in moto la loro libertà; sento dire, talora, che occorre guardarsi dall’attivismo: l’osservazione potrebbe essere opportuna in un momento in cui ci fosse un eccesso di attività, non in un momento in cui la tendenza è quella di ritirarsi nel proprio individualismo; oggi mi pare che sarebbe più opportuno sottolineare il pericolo dell’ignavia. Per evitare il pericolo dell’attivismo, comunque, occorre solo che l’educatore richiami con costanza l’ideale per il quale ci si impegna. Ancora, occorre che si impari da don Giussani il richiamo all’ambiente dove il giovane vive e su questo punto gli “esperti” dovrebbero essere più liberi di pensiero.
Leggendo Ortodossia del grande Chesterton (Ed. Lindau, pag. 181), ho trovato una espressione che mi pare confermi quanto scritto dal nostro Servo di Dio, nel senso che viene richiamata la semplicità che deve avere la parola. «Le parole lunghe (cioè difficili e complicate, ndr) non sono parole dure (cioè convincenti, ndr), sono le parole corte ad essere dure… queste lunghe, comode parole che risparmiano alla gente moderna lo sforzo di ragionare hanno un aspetto particolare, per cui risultano generalmente disastrose e fuorvianti». Mi pare che ciò accada ogni volta che gli “esperti” cattolici complicano il linguaggio semplice dell’ortodossia cattolica, il che ha allontanato molti fedeli sia giovani che adulti. La genialità educativa di don Giussani è di avere spiegato ai distratti il significato delle parole “semplici” dell’ortodossia. Spero che se ne tenga conto.
Peppino Zola
Foto Ansa
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