
Il calvario di Layla, venduta dall’Isis a cinque “padroni”, tra stupri e aborti

Si ritiene «forunata» Layla Talu rispetto a tante altre donne yazide che come lei, nel 2014, sono state rapite nel distretto del Sinjar, nell’Iraq settentrionale, dallo Stato islamico. E questo già dice tutto sul trattamento disumano che i yazidi hanno dovuto subire per mano dei jihadisti.
LA FUGA E LA CATTURA
L’avanzata dell’Isis ha costretto Layla a fuggire dal suo villaggio il 3 agosto 2014 insieme al marito e ai due figli, rispettivamente di 4 anni e 18 mesi. Come decine di migliaia di altri membri della minoranza etnica e religiosa, la famiglia di Layla ha cercato rifugio sul monte Sinjar, ma non l’ha mai raggiunto.
Catturata lungo la strada, è stata divisa dal marito e trasportata insieme ai figli a Mosul, dove è stata trattenuta per quattro giorni. Da lì è stata trasferita a Tal Afar per una settimana e poi nella prigione di Badush. Quando questa è stata bombardata dai raid della coalizione anti-Isis, Layla è tornata a Tal Afar e dopo otto mesi di insulti, percosse e minacce portata a Raqqa, la capitale del califfato in Siria.
«CI TRATTAVANO COME ANIMALI»
«Il trasferimento è avvenuto su grandi autobus. Eravamo centinaia di donne e ci trattavano come se fossimo animali. Dormivamo sul pavimento, non ci davano abbastanza da mangiare e da bere. In compenso ci riempivano di botte», ricorda Layla parlando con Al Jazeera. Dopo 40 giorni passati in carcere, la donna fu trasferita con i suoi due figli nella casa di un importante jihadista, dove cominciò il suo calvario fatto di stupri e violenze.
Il suo primo “padrone” era un medico di circa quarant’anni. «Mi legava e mi frustava con crudeltà perché mi rifiutavo di sottomettermi alla sua brutalità. Per questo mi stuprava». Poi fu venduta a un secondo uomo che proveniva da Mosul ed era sulla trentina. «Mi ha stuprata diverse volte e poi mi ha venduto per ricavare da me un profitto».
GLI STUPRI E GLI ABORTI
L’uomo che l’acquistò era originario di Baghdad. Dopo uno degli stupri Layla risultò incinta e il terrorista la costrinse ad abortire. «Ci chiamavano “spaghetti” e ci dicevano: “Non meritate niente se non la morte ed essere trattate come schiave». All’uomo di Baghdad, seguì un saudita che la picchiava e la frustava. Anche lui la mise incinta e di nuovo la costrinse ad abortire. Il quinto padrone a cui fu venduta era un libanese di 33 anni, che la stuprava con l’aiuto e il consenso della moglie olandese. Durante la permanenza nella sua casa, Layla fu costretta a partecipare a molte orge.
«IL MONDO DEVE SAPERE LA VERITÀ»
Dopo due anni passati in questo modo a Raqqa, Layla e i suoi due figli furono liberati al prezzo di 20 mila dollari grazie all’impegno della famiglia e di un trafficante siriano. Oggi Layla ha 33 anni, il marito è quasi certamente morto, ma lei è riuscita a rientrare nella sua comunità. Ha però paura che qualcuno dei suoi rapitori possa rintracciarla. Per questo è rimasta in silenzio.
Ora però si è decisa a parlare per far conoscere al mondo che cosa hanno dovuto subire gli uomini e le donne yazidi per mano dell’Isis e nella speranza che i terroristi vengano un giorno assicurati alla giustizia. «Spero che la mia storia aiuti a far luce sulle sofferenze del mio popolo», conclude Layla, raccontando che molte delle sue amiche, non riuscendo a sopportare la stessa sorte, si sono suicidate alla prima occasione. Altre sono scomparse. «Il mondo intero deve sapere la verità sull’oppressione, la persecuzione, gli stupri, assassini e sfollamenti ai quali siamo stati soggetti».
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