«Marco Simoncelli, un bambino cui ricordavo sempre di non dire parolacce nelle interviste»

Di Paola D'Antuono
23 Ottobre 2012
«Il Sic era un ragazzo semplice. Inciampava, era buffo, sbagliava i verbi ed è per questo che, un anno dopo, nessuno si è dimenticato di lui»

Un anno fa la vita di Marco Simoncelli s’infrangeva alla Curva 11 del circuito di Sepang, lì dove adesso c’è una targa commemorativa. In quell’istante Sic se n’è andato e con la sua morte in pista sono aumentate le domande. Può un ragazzo di 24 anni spegnersi a cavallo di una moto? Può una persona semplice, sorridente, buffa, scatenare lacrime di migliaia di sconosciuti, lettere alla sua famiglia, funerali con Vasco in sottofondo e una moto vicino all’altare, ricordi che non passano nemmeno 365 giorni dopo? «Sì, se parliamo di Marco Simoncelli. Un ragazzo che aveva assunto le sembianze di un custode di valori semplici, così semplici da sembrare straordinari. Lui e la sua famiglia». A parlare è Giorgio Terruzzi, giornalista di Sportmediaset: «Siamo abituati a una serie di iperboli abbinate alla notorietà, alla retorica da sport, all’immagine dei campioni. Che lui ha annullato».

La sua mancanza è costante, dentro e fuori dalla pista.
Sicuramente lo è più fuori. Simoncelli era diventato il simbolo di un modo di essere giovani nonostante la celebrità, nonostante lo status di campione. Questa è una rarità. La sua morte ha amplificato tutto. La sua mancanza è più nel quotidiano delle nostre vite che nella pista. Certo, lui era il talento italiano chiamato a raccogliere il testimone di Valentino Rossi e sappiamo bene che è nell’ordine delle cose che le corse possano produrre un lutto, ma la natura di questo lutto è anomala. Se n’è andato un ragazzo che ha avuto rilevanza più come persona che come pilota.

Suo padre Paolo parla, sorride, racconta suo figlio in un libro, come se non avesse rimpianti, come se amasse ancora la pista.
Questa reazione non mi stupisce. Paolo Simoncelli è sempre stato presente nella vita di Marco, l’aveva introdotto lui al mondo delle corse, anche la sorella Martina era sempre ai box. Il rapporto di questa famiglia con le corse era più profondo di quello che possiamo immaginare. Il papà di Marco continua a stare nelle corse, quello è il suo mondo, oltre che il mondo di suo figlio. Sapeva che c’erano rischi concreti per Marco e lo sapeva anche lui, ma i piloti non hanno lo stesso istinto di autoconservazione degli altri. Chiunque sa che andare a 300 all’ora sulla moto può voler dire morire ma i piloti non ci pensano, non pensano che la questione li riguardi.

L’affetto delle persone in questo anno non è cambiato di una virgola, anzi si può dire che sia sempre più forte.
Marco è il primo pilota, la prima personalità celebre che scompare all’epoca dei social network. Questo ha comportato anche moltissime speculazioni, perché Sic si presta a essere ricordato teneramente, intimamente, ma la sua scomparsa è stata enormemente spettacolarizzata su Facebook e Twitter. Quando si consumò l’ultimo grande lutto nel mondo delle corse, nel 1994 con la morte di Ayrton Senna, i telefoni cellulari erano grandi come cabine telefoniche e non avevano la funzione che hanno oggi. Oggi ogni sentimento, ogni emozione è social, viene amplificata, ridiscussa, rilanciata all’infinito.

Qual è il suo ricordo di Marco Simoncelli?
Era un ragazzo sin troppo tenero, sin troppo esposto, sin troppo semplice, era facile dimenticare che fosse un pilota. Se riguardo le immagini di Marco penso a un figlio da proteggere più che un campione, anche se il nostro rapporto è nato sulla pista, tutto partiva da lì. La sua notorietà era data dalle corse, ma la sua popolarità era dovuta al fatto che nel suo modo di stare al mondo – più che stare in pista – aveva dentro qualcosa che lo faceva somigliare a un parente, un amico, una persona cara. Strano, perché in genere i piloti sono percepiti come campionissimi distanti, ammirati, che fanno qualcosa di lontanissimo dalla vita quotidiana. Sic metteva il casco e correva ma al tempo stesso sorrideva, inciampava, era buffo, cadeva, sbagliava i verbi, ti ricordava il tuo essere stato un fanciullo, e i ragazzi della sua età si riconoscevano in lui. Il mio ricordo era di un piccolo bambino al quale dovevo ricordare sempre di non dire parolacce durante le interviste. Proprio come un papà.

@paoladant

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