Tutto tutto niente niente, la recensione del film di Antonio Albanese è tutta nel titolo

Di Paola D'Antuono
10 Dicembre 2012

Il tour in giro per l’Italia con il suo bus delle primarie lasciava presagire che, nel suo secondo film, Antonio Albanese avrebbe parlato ancora di politica italiana. Come sa fare lui, prendendo in giro gli enormi vizi e le pochissime virtù degli italiani. Per Tutto tutto niente niente, in uscita il 13 dicembre, il comico si è persino fatto in tre. C’è Cetto La Qualunque, politico e mafioso calabrese protagonista di Qualunquemente, c’è Frengo, personaggio storico nato in tv, che ama lo sballo, e c’è il nuovissimo Olfo, veneto secessionista e razzista. Tre personaggi sui generis che entrano in Parlamento dove, a dir la verità, di umanità strana ce n’è abbastanza e vige una sola regola: divertirsi come se non ci fosse un domani.

TUTTI A ROMA. Cosa ci fanno Frengo, Olfo e Cetto a Roma? A chiamarli è stato il sottosegretario del consiglio (un divertentissimo Fabrizio Bentivoglio), che li ha tirati fuori dalle rispettive carceri e li ha nominati deputati. Avranno tutto: case, soldi, divertimenti, e in cambio dovranno solo votare seguendo le indicazioni del sottosegretario. Ma Frengo, Olfo e Cetto non sono politici navigati ed esperti e di guai ne combineranno tantissimi, dentro e fuori dal Palazzo.

GROTTESCO, PURE TROPPO. La capacità di Antonio Albanese di costruire personaggi assurdi – ma neanche tanto – è indiscussa. I tre politici per caso che incarna sono delle simpatiche canaglie italiane. Olfo vorrebbe annettere la sua piccola città veneta all’Austria e prepara la rivoluzione nel giardino di casa, Cetto, abbandonato il feudo calabrese in cui regnava incontrastato, non è più lo stesso e le numerose donne a sua disposizione non gli fanno più effetto. Frengo, invece, da spensierato fumatore di marijuana trasferitosi in Spagna, deve fare i conti con una madre devotissima che lo vuole “beato in vita” a tutti i costi. Fin qui tutto bene.  Il problema di Tutto tutto niente niente, diretto da Giulio Manfredonia, risiede però nel rapporto tra questi tre personaggi e il mondo esterno, dal Parlamento e dalla Chiesa, i due poteri forti che risiedono a Roma e con cui i tre si scontrano. All’interno dei palazzi si sviluppano vicende grottesche, talmente grottesche da spazientire chi guarda. Che si trova a ridere di gusto su alcune battute geniali di Albanese, ma che finisce per mal tollerare l’insistente corsa alla risata per novanta minuti. Che si parli di sesso, di razzismo, di Chiesa, di Stato, di mariti, di mogli o di droghe leggere, ogni scena nasce e si sviluppa come se attendesse solo la risata registrata tanto cara alle sitcom. Che invece, purtroppo, non arriva così frequentemente, anche a causa di un’eccessiva sguaiataggine dei personaggi di secondo piano.

BENTIVOGLIO. Fa eccezione un personaggio, il sottosegretario interpretato da Fabrizio Bentivoglio, davvero riuscito con i suoi tic, la parlata rassicurante da politico navigato e il look da Guerre stellari. Quando compare sullo schermo la sua presenza è davvero folgorante. Un’ultima nota nostalgica, invece, per Paolo Villaggio: questo film poteva essere una splendida occasione per rivedere al cinema il grande attore genovese. Purtroppo, però, come presidente del consiglio lo si vede in sole tre sequenze, in cui non parla se non per bocca del suo assistente. Peccato.

Vale il prezzo del biglietto? Solo per i fan sfegatati delle maschere di Albanese
Chi lo amerà? I detrattori
A chi non piacerà? A chi mal digerisce la satira politica

@paoladant

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